Girasoli al pomodoro. Il nuovo "ecoterrorismo" al museo

L’assalto alle istituzioni museali continua.

L’ultima vittima, i Girasoli di van Gogh della National Gallery, attacco compiuto da due giovani militanti per la protesta anti-petrolio “Just Stop Oil”, contro la produzione di combustibili fossili. La stampa internazionale è esplosa. Questa volta come non mai. Si tratta dell’ennesimo colpo assestato non solo al mondo dell’arte, ma anche – e più in generale – al mondo della cultura.

Cosa si recrimina? Cosa si condanna? La retorica dietro questi attacchi è sempre più o meno la stessa, semplicistica e desolante. Eppure, vale la pena analizzare bene il fenomeno, contestualizzarlo nel nostro presente, relazionarlo ad altre proteste simili (noi de L’Amletico scrivemmo della rivolta iconoclasta della cancel culture contro i monumenti dedicati a figure “controverse”, per leggerlo clicca qui ), per riflettere sul ruolo e l’immagine della cultura oggi, la sua decadenza, ma anche il suo appeal simbolico, che (r)esiste, nonostante tutto, anche in modi inaspettati.

 

“Ma noi combattiamo per la giusta causa!”

 

            Così si giustificano, quando hanno l’occasione di legittimare orgogliosamente o difendersi timidamente davanti l’onda d’urto di critiche urlate dall’opinione pubblica. La produzione di combustibili fossili va fermata con qualsiasi mezzo, a qualsiasi prezzo, affermano. Questa volta il colpo è stato il più grosso di sempre. Da decenni l’artista neerlandese è diventato quasi l’emblema dell’arte contemporanea, forse il nome più pop e sdoganato dalla vulgata comune. Imbrattare van Gogh, rovesciando il contenuto di un barattolo di pomodori sulla superficie di una delle sue opere più rappresentative, significa attaccare l’intero mondo della cultura, reo di non assumersi sufficienti responsabilità in merito alla crisi climatica. Colpevole di snobismo, complice di un sistema borghese ed elitario, forse sottilmente passatista, che ostenta una politicizzazione sinistroide di facciata. Eppure, sarebbe troppo semplice così. Troppo (falsamente) innocenti gli slogan, troppo (stupidamente) diretta la comunicazione, in un certo senso figlia degenere dallo stile delle lotte di Greta Thunberg. Le battaglie dell’attivista svedese, tuttavia, non prevedevano nessun exploit di violenza. Qui, invece, ad essere colpite sono opere d’arte, concepite nella mente dei militanti probabilmente come delle mummie ammuffite, oggetto quasi di un culto necrofilo da parte di un pubblico totalmente astratto dalla scottante e drammatica realtà. Occorre svegliarli dal loro torpore, gridare, infrangere la loro bella bolla, per riportarli ai problemi concreti. Il mondo sta crollando, la natura sta morendo.

Eppure, tutto questo rumore – perché è questo l’obiettivo, fare rumore sperando di farsi ascoltare – cosa produce? Non stimola altra indifferenza e torpore?

Certo, all’inizio c’è lo scandalo e lo sdegno collettivo. La stampa omette puntualmente che le opere sono protette da un vetro, per gettare benzina sul fuoco. Ma alla fine non resta che un fastidio più o meno acuto in alcuni, più o meno distratto in altri, e così il contento ideologico delle battaglie si (dis)perde, quasi come l’olio inquinante condannato dagli slogan delle loro magliette. Solo un’altra trovata di marketing scandalistico. L’ennesima, in una cultura dell’informazione coerentemente scandalistica, dove la frenesia e l’esasperazione caratterizzano sia la forma che la sostanza delle notizie, dove nel marasma delle continue crisi che attanagliano il nostro presente occorre lottare per accaparrarsi il proprio posto in pole position davanti a bombardamenti, incendi, abusi e altri orrifici fatti di cronaca.

           

I musei, fabbriche di olio e altari del potere

 

            Chi sono i veri bersagli? Ad essere presi di mira non sono tanto le opere in sé, ma il valore simbolico che esse esercitano all’interno del contenitore museale. Ogni museo e galleria può vantare un capitale artistico più o meno appetibile per questi collettivi di lotta ambientalista che riciclano malamente strategie di lotta ecoterrorista. I musei sono lo specchietto per le allodole di una cultura chiusa e narcisistica, intesa come l’estensione naturale del potere capitalista, tossico ed inquinante. Questa narrazione è banale e generalista, eppure qualcosa di vero c’è. Perché le “persone comuni” si indignano immaginando il loro capolavoro perduto deturpato? Il potere simbolico del museo non è passivo, ma latente. Solo quando esso viene messo a rischio si attiva, genera una risposta difensiva. Per molti di noi l’arte non rappresenta una priorità. Non ci pensiamo, non fa parte della nostra quotidianità. Esiste, tuttavia, uno strano legame – quasi invisibile e per questo impenetrabile – che ci lega a certe immagini, a certe produzioni materiali che si fanno portavoce di valori umani quasi sacrali. Il museo ha un fascino e un’aura trascendente, magari ipocrita talvolta, però capace di generare effetti reali. Le opere, avvolte nel silenzio o nel frastuono di flash e nel clamore di orde di turisti, alimentano questo culto quasi involontario per cose che per lo più neanche conosciamo, poiché inconoscibili, insondabili.

            Gli pseudo-eco terroristi si fermano un po' prima, ma hanno capito il meccanismo. Fanno leva sulla violenza, anche se ostentata, per generare dei microtraumi nelle coscienze collettive, minacciando quella parte delicata e sensibile che ci lega alla bellezza, intensa nel suo senso più profondo.

Qui risiede il loro limite: vedere nella cultura solo un baluardo, un vessillo da imbrattare. Invece c’è della vita nella decadenza, dentro e oltre le istituzioni museali. Offenderla non richiama l’attenzione verso quelle che succede fuori dal museo, ma riattiva questo legame dormiente con ciò che esso rappresenta per noi oggi, ferendoci. È una cosa nobile, sì, sentirsi così intimamente toccati, anche se questo sfortunatamente non comporta nessun beneficio razionale, non stimola nessuna consapevolezza “attiva” capace di riscattare il sistema culturale dall’immobilismo atavico che lo affligge. Ci ricorda solo che siamo esseri complessi e paradossali, legati a doppio filo con qualcosa di fragile e più grande di noi.

 

 

Pistola alla tempia: “O l’arte o la vita”

 

            Una delle due manifestanti ha posto al suo pubblico tale ultimatum, come se si trattasse di un aut aut. L’atmosfera è tesa, è necessario dare una risposta concreta nell’immediato, non si può più attendere. Non c’è nessuna esitazione nelle parole che proferisce, quasi come se stesse recitando un copione perfettamente imparato. Il ruolo della sua vita. I Girasoli di van Gogh alle spalle, con la zuppa colante lungo la superficie del vetro protettivo, sono un triste sfondo. Le due militanti, con le mani incollate sotto la cornice, hanno l’espressione risoluta e assente, quasi mosse da una cieca rabbia. È molto difficile empatizzare con loro. Stranamente è più facile farlo con “l’arte” in senso astratto e l’opera colpita in senso concreto. Certo, la crisi climatica è un fatto gravissimo e terribile, che ci coinvolge tutti. Ma nel momento in cui guardiamo questo video sulla testata online di turno, con la protesta che sembra quasi una performance, pensiamo che l’opera è innocente e la cultura indifesa. Per quanto questi luoghi possano sembrarci ostili e indifferenti, gestiti da direttori boriosi, curatori inconsistenti, popolati da storici dell’arte tronfi e arroganti, alla fine questi personaggi non fanno altro che amministrare il nostro patrimonio, che altrimenti non avrebbe nessuna risorsa per tutelarsi. Anche se si tratta di un mondo sorretto da pervasive e talvolta oscure dinamiche di potere, quello che si espone e si conserva riguarda tutti, appartiene a tutti. L’apparato istituzionale è criticabile, certamente, ma non il suo contenuto, che trascende il controllo esercitato dal singolo. Nessuna presunta star accademica potrebbe intercedere presso i “poteri forti” per garantirci dell’aria più pulita.

            L’alternativa “l’arte o la vita” è inconsistente perché noi siamo fatti di cultura. Senza di essa ciascuno potrebbe tranquillamente essere uno di quei loschi industriali che lucrano sulla morte degli ecosistemi, consumando spudoratamente risorse che minano la sopravvivenza di tutto e tutti. Anche se sembra una risposta idealista e un po’ deludente, solo risvegliando e stimolando la consapevolezza delle future generazioni, già piuttosto sensibili al tema, possiamo costruire le condizioni affinché la nostra civiltà cambi, accogliendo l’urgenza di questioni critiche che riguardano trasversalmente la nostra intera esistenza, pubblica e privata. Non soltanto nei confronti dell’ambiente, ma nei confronti di noi stessi e della nostra eredità umana e intellettuale. Le battaglie ideologiche condotte con trovate spettacolari e mediatiche sono fini a sé stesse. Questo non è ecoterrorsimo, è solo una sua parodia decontestualizzata. Il museo potrebbe diventare la fucina dove si elabora un avvenire diverso, ma solo se non lo si sfrutta come vetrina, insozzando il suo messaggio. Non c’è niente di più stupido del cinismo, è persino peggio dell’idealismo. Tuttavia, per non essere completamente degli illusi, forse un po’ di sano fatalismo non fa male. Magari non c’è ancora un modo per salvare il mondo semplicemente perché l’Apocalisse deve ancora manifestarsi con il suo volto più spietato. Solo quando non ci sarà più speranza essa potrà (forse) risorgere nel luogo più inaspettato. E perché no, magari nel giallo luminoso di van Gogh, nell’alba sublime e incandescente dei suoi girasoli solari. A patto però che non siano oscurati da uno strato grasso e sintetico di passata di pomodoro.