Aleksandr S. Puškin, “Operette licenziose”

Chiamato come da una sirena, vedendo il libro sul bancone dello stand Voland del Salone del Libro di Torino, non ho potuto resistere e me lo sono portato a casa.

Fino ad oggi, poi, il bel libriccino ha continuato a cantare la sua malia e ad attrarmi finché, finalmente, l’ho letto trepidante.

Così, è avvenuto il mio primo incontro con Puškin, il grande Padre della letteratura Russa, la cui prima cosa in assoluto che abbia letto, prima fra le “Operette licenziose” presenti in questa raccolta, è stata “L’ombra di Barkòv”. Ci tengo a precisarlo poiché, lungi dall’essere eufemisticamente licenziosa, “L’ombra di Barkòv” è invero una piccola ballata squisitamente pornografica. Quindi, potete immaginare il mio stupore quando, credendo di leggere tutto un altro tipo di lingua, immaginando chissà perché l’ampolloso eloquio del venerando scrittore, mi son ritrovato sotto gli occhi, poche righe dopo l’inizio, la seguente frase: «Bevve ciascuno un calice di punch,\ giacque con una puttanella\ e si mise a pompare sopra il letto\ dandoci dentro con la fava.»

Mi si creda, l’inizio è una pallida anticipazione del turpiloquio, della volgarità che si incontrerà nel resto del testo.

Posso proprio dire che il mio primo incontro con Puškin sia stato il migliore auspicabile. Egli compose questo testo grottesco e divertentissimo, che a me ha ricordato persino alcune scene del “Satyricon”, quando frequentava ancora il liceo, nel 1816 circa. Aveva diciassette anni e la sua giovanile tempesta ormonale si sfogò, evidentemente, nella composizione di questa raffinata ballata scritta in versi rimati.

La poesia russa di otto e novecento era tutta in metrica rimata, ma in traduzione, malauguratamente, si perde la musica che deve esserci fra queste adorabili sconcezze - alla portata, però, di chi sappia leggere il cirillico, poiché il testo originale è comodamente a fronte. Lo zelo di Cesare G. De Michelis, primo in assoluto ad aver pubblicato questo testo che era rimasto inedito - come egli stesso ribadisce più e più volte -, ci permette di leggerne il contenuto anche in italiano.

Chiedendovi un modesto sforzo ginnico, desidero fare un piccolo salto dell’indice per passare a dire qualche parola direttamente della terza ed ultima operetta del volume, “Zar Nikita e le sue quaranta figlie”. Anche nella terza operetta licenziosa il testo risente della stessa malinconia per la musica perduta. È una fiaba succulenta - velatamente sconcia - che in traduzione però riesce a mantenere quel sapore quasi di filastrocca che deve essere una delizia se letta in lingua originale. Approfitto dell’attesa per far placare l’applauso al traduttore per dire come, effettivamente, il ritmo cadenzato delle parole, le frasi brevi, insomma le arguzie ritmiche date al testo tradotto danno alle parole un aspetto musicale che, ignorando il russo, non posso descrivere come analogo all’originale, ma sicuramente posso definire efficace.

Fra le tre, “Zar Nikita” è l’operetta che brilla di una luce meno fulgida, va detto, ma è comunque un piacevole divertissement.

Adesso, in questo breve gioco dell’oca, vorrei tornare indietro di una casella per provare a descrivervi finalmente il dulcis in fundo della seconda fra le operette qui riunite: la miracolosa “Gabrieleide”.

A quanto si legge in prefazione, la “Gabrieleide” è stato il testo di Puškin più censurato in epoca zarista ed il primo ad essere stato riportato alla luce sotto il regime sovietico.
Si tratta della più divina opera blasfema che io abbia mai letto, un poema che non è altro che la versione erotica dell’annunciazione.

Ecco la manifestazione palese del genio.

La questione è in realtà molto semplice: perché Dio avrebbe scelto Maria? Perché Maria è bella tra le donne e Dio ne è innamorato. Perciò, come ogni innamorato che indossa l’abito più bello, Egli scende dal cielo avvolto dal tumultuoso turbinio del suo corteo di angeli e le dichiara il proprio amore. Maria ne è lusingata, ma nella folla accerchiante delle gerarchie celesti i suoi occhi incontrano fugacemente - o casualità diabolica! - quelli dell’arcangelo Gabriele dai boccoli d’oro, con l’elmo di diamanti a coronare la sua figura bella oltre la bellezza. La bella tra le donne non può commettere l’ingiuria di non rendere grazie alla perfetta bellezza della creazione divina, e dell’arcangelo si innamora. Va da sé che se Dio è innamorato di Maria, Gabriele ne rimane folgorato.

Ebbene, questo è solo l’inizio delle vicende del triangolo formato da Maria, Gabriele e Dio, triangolo a quattro lati, perché il Diavolo ci mette lo zampino - e anche qualche altra protuberanza del corpo seducente.

Maria, attraverso l’amore, scopre il corpo e attraverso il corpo scopre il piacere che altri corpi possono dare al suo, ed è normale che sia così, perché la Maria di Puškin è una ragazza innamorata. Ne avrà conosciute, il russo, di ragazze innamorate; del processo dell’innamoramento avrà studiato le manifestazioni, i dolori e i desideri.

«Parliamo delle bizze dell’amore\ (d’altri discorsi non m’intendo affatto)», dice Puškin, ignorando la teologia, i dogmi, il timor di dio e parlandoci esclusivamente dell’amore.

Un dio più umano di questo innamorato e geloso, nonostante lo sforzo di farsi uomo e morire e tutte quelle cose molto umane che vanno blaterando i suoi bigotti, sessuofobici sacerdoti, io non l’avevo ancora mai incontrato.

Il poema è del 1822, Puškin aveva 23 anni: ci si rende conto? In queste pagine garbatissime, che nel loro dare a dio, agli angeli, alla madonna una forma sensualmente umana sembrano anticipare la “Buona novella” di De André («ed alla fine d’ogni preghiera contava una vertebra della mia schiena»), si legge quella che secondo me è la più bella versione dell’Ave Maria mai scritta. Inizia così: « - Ave Maria, piena d’innocenza!\ L’amore è con te, bella fra le donne».

Non posso più andare avanti, posso solo suggerirvi caldamente di leggere il libro per godere della sua erotica bellezza completa.

La prefazione di De Michelis è sufficientemente interessante ma un pochino noiosa e tenta, a mio avviso, di mitigare la portata di questi testi, soprattutto della “Gabrieleide”: sembra che egli voglia ridimensionarne l’importanza, giustificandone il fine in maniera maldestramente democristiana; sarebbe stata censurata con tanto zelo un’opera tanto insignificante come vorrebbe far credere De Michelis? Sarebbe stato portato alla ribalta dall’attentissimo regime sovietico un testo vecchio di quasi cent’anni se fosse stato un’inezia? Il solo fatto di definire la “Gabrieleide” un’operetta licenziosa a mio avviso rende manifesto l’intento calmierante di De Michelis. Chiudere la “Gabrieleide” fra il vezzeggiativo di due operette licenziose davvero e di rango inferiore è un altro indizio, non so quanto cosciente, della volontà di attenuare i travolgenti amori divini di Maria.

Si dovrebbe parlare, piuttosto, senza mezzi termini, di un poemetto erotico!

Amen.