Un cazzo ebreo, provocazione e libertà

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Siamo a Londra, in quello che sembra essere lo studio di uno psicoterapeuta. Lui, il dottor Seligmann, ci viene descritto da subito, e si tratta di un uomo anziano ed elegante come l’ambiente che lo circonda, sobrio e altolocato. È una presenza rassicurante, che ascolterà con cura e attenzione il discorso sconclusionato della protagonista – un vero flusso di coscienza – e ci accoglierà con la sua presenza silenziosa lungo tutto lo scorrere di queste pagine che lasceranno il segno, fino alla fine. Lo sappiamo già, lo capiamo dall’incipit, dalla maturità della scrittura e dalla violenza dei contenuti che ci troviamo davanti a qualcosa di massimamente audace. Lei, la donna distesa, racconta e si racconta, disinibita e ironica al tempo stesso, vomitando fuori tutti i demoni interiori del proprio inconscio, partendo da una fantasia sessuale niente di meno che con Hitler, un’esperienza onirica tanto folle quando gravida di significato, che ci introduce alle dolorose esperienze di vita della donna, che l’hanno portata dalla Germania all’Inghilterra, abbandonata la dura infanzia e una complessa storia d’amore con un artista maledetto che fa della propria opera un inno al suicidio.

 

L’esordio letterario di Katharina Volckmer è un pugno allo stomaco. Coraggioso, trasgressivo, selvaggio, Un cazzo ebreo è un romanzo che tratta temi caldi con una penna urticante che taglia le carni come un bisturi, e lo fa con grande stile, senza scadere nella facile e volgare provocazione fine a se stessa. Con questa operazione chirurgica, a tratti da macelleria, la scrittrice arriva alla pancia dello spettatore parlandoci con voce forte e stentorea di un malessere tentacolare che ha radici profonde, nella storia europea come nei recessi della psiche individuale, che contempla la difficoltà di accettare se stessi, la propria identità e il proprio corpo.

toccata e fuga dalla Germania

Così, mentre feticismi con code di scoiattolo e perversioni sessuali degradanti (ma forse nemmeno tanto) si avvicendano senza soluzione di continuità, il trauma dell’olocausto e le sue ferite non rimarginabili fanno da contraltare alla biografia della donna. Le tracce di quest’eredità così ingombrante sono qualcosa di più di un mero sfondo storico, e si inseriscono all’interno della narrazione come un’esplosione vulcanica. Il cataclisma di questo passato, non vissuto direttamente dalla donna, attraversando generazioni - ma non perdendo nulla della propria drammaticità originaria - diviene in questo processo di scavo qualcosa di più vivo e autentico di una storia raccontata e tramandata. La sua esistenza lacerata diviene un testimone anacronistico di questo male, supporto letterario per un faccia a faccia con l’eredità nazista. È precisamente qui che si genera la coincidenza fra il dramma dell’accettazione di se e delle implicazioni più generali ma non più generiche della propria presenza nel mondo.

Il carattere sintomatico della scrittura di Volckmer evidenzia l’urgenza di questo confronto, di una risoluzione che se non può essere catartica deve almeno essere distruttiva nel senso ottimistico del termine, nel senso in cui lo sono le rovine, luoghi di morte e resurrezione che testimoniano e promettono tacitamente nuove costruzioni e nuove macerie. Ed è proprio un’enorme rovina interiore quella che si dipana progressivamente nel corso di una lettura che è anche un ascolto terapeutico, un panorama desolato fra distopia passata e distopia futurista, dove robot sessuali si presentano come l’ultima frontiera di un amore postumano, estrema fantasia della protagonista che nell’amara disillusione perde la fiducia nell’uomo ma non ha cede alle facili lusinghe del cinismo.

Psicoterapia che passione

L’immaginario clinico in cui prende forma questa confessione al limite dello scabroso ci riporta alla mente i deliri da lettino freudiano di Woody Allen e Philip Roth, ma il dottor Seligman capiamo presto non essere uno psicoterapeuta. La donna è stata in terapia, in passato, con un certo dottor Jason, e il racconto dissacrante che ci offre di questa esperienza tragicomica mostra tutta la sfiducia verso una certa concezione borghese dell’analisi che spesso finisce per diventare una pratica banale e mondana. La radicalità della sofferenza della donna esige invece una soluzione drastica, e il dottor Seligmann - appunto un chirurgo plastico - le dovrà dare quel cazzo ebreo che potrà finalmente permetterle di fare i conti col proprio passato tedesco e l’avvenire senza patria e senza nessuna identità prescritta che si spalanca davanti, una metamorfosi che la proietta oltre i consueti problemi di genere che nella narrativa odierna vengono troppo spesso banalizzati in parabole edificanti di stereotipata sofferenza e sbrigativa accettazione.

HITLER MON AMOUR

Trasformare l’immagine erotizzata e ridicolizzata del Führer in un’icona postmoderna dell’amore, grazie all’assunzione quasi spirituale di quel cazzo ebreo nominato nel titolo, è questo il miracolo tutto terreno dell’amore come vettore unico di una trasfigurazione necessaria anche se non salvifica, di un corpo e di una storia che si proiettano in avanti carichi di una consapevolezza fatta di ferite e traumi insuperabili certo, che in ultima analisi non figurano come un ostacoli, anzi, ma fungono da acceleratori in questo processo aperto e in divenire. Nelle ultime pagine Volckmer scrive:

 

“Forse è questo il motivo per cui mi piace pensare a questa storia (…) per ciò che racconta dell’amore e di come in realtà sia una ricerca egoistica, di come sia irresponsabile lasciare che qualcuno si innamori di te, eppure è impossibile da evitare. Perché anche se ti seppellissi vivo in una stanza senza finestre e ti dichiarassi allergico al mondo intero, qualcuno troverò un modo per piazzare il suo cuore sotto i tuoi piedi”

 

Un cazzo ebreo dunque ci parla di una cultura che non si riconosce nell’immagine convenzionale dell’erudizione e della conoscenza come un fatto astratto irrelato dalla vita, ma si vuole come un intreccio indissolubile di intellettualità e visceralità. Come scrive Julia Kristeva, arrivati oggi in un’era post-ideologica non c’è più posto per nessuna rivolta nel senso assolto del termine, in quanto non c’è più nessun grande sistema da contrastare, e nessun contro-valore così maneggevole e pratico da sventolare come un fumogeno o una bandiera. Allora è arrivato proprio il momento di riscoprire la profonda risonanza di quelle “rivolte intime” di cui ci parla la studiosa, che toccano la cultura ma passano attraverso il corpo e intercettando un’interiorità che mette l’onestà umana con quella intellettuale sul medesimo piano. Volckmer ci parla con coraggio di questa possibilità, e lo fa con un’irriverenza che è raro scoprire così ben impiegata.