Spunti filosofici su Takeshi’s Castle

Takeshi’s Castle, show televisivo vintage e intramontabile, ha ridefinito gli standard dell’intrattenimento demenziale, raggiungendo picchi di assurdità geniali. Takeshi Kitano è l’ideatore di questa macchina della follia, volto iconico del cinema giapponese.

Attore e regista dall’espressione sorprendentemente obliqua e impassibile, capace di fomentare nei primi piani una forza di un’intensità incredibile, lo figuriamo tutti in una delle sue scene più famose: la celeberrima di Sonatine, in cui vediamo incise su un volto che è quasi una maschera, follia, ebbrezza e tragica lucidità mentre si punta una pistola alla tempia sinistra.

Un’immagine di rara potenza e violenza, nel segno di una carriera che ha saputo far convergere la nerezza degli abissi umani e sociali con l’euforia pazza e scellerata di un programma come Takeshi’s Castle, opera che – come evidenzia il titolo – più autoreferenziale non si può.

IL GENIO DEL MALE: BEAT TAKASHI/TAKASHI KITANO

Come risulta evidente non si può parlare del programma senza parlare del suo autore. Kitano, sempre faceto e solo apparentemente serioso, inizia la sua carriera artistica nel mondo della comicità giapponese facendo piccoli spettacoli cabarettistici chiamati “Manzai”. Il variopinto e luminoso mondo dei locali notturni, sospeso fra lecito e illecito, è il suo primo campo di sperimentazione.

È qui che adotta il nome di Beat Takeshi, una sorta di alter ego comico che viene abbandonato quando inizia a realizzare i primi film legati a tematiche vicine al mondo della malavita. Dal riso si passa all’orrore, dalle battute pungenti agli spari perforanti e Kitano diventa presto il maggiore esponente del cinema di Yakuza, genere che gli è valso la fama mondiale. Qui la violenza, cruda e afferrata, sarà la sua firma.

L’esperienza di Takeshi’s Castle, situata temporalmente negli anni Ottanta ma esportata a fasi alterne in tutto il resto del globo, un precedente importante che consolida la fama di questa figura che nello show assume il ruolo di antagonista, così come nei suoi film veste sovente i panni di cattivo o antieroe.

Come una cerniera lo show demenziale congiunge e separa la violenza dal sadismo e dall’ironia, spiazzando come farà un film che si avvicina stilisticamente a questa produzione, Getting Any (1994), lavoro malamente accolto e recensito che viene comunemente ritenuto il punto più basso della sua carriera.

Questo pastiche pomposamente autoreferenziale e postmoderno, sorta di parodia allucinata del cinema giapponese, è come una chiave per comprendere la vasta portata di Takeshi’s Castle. E non si conclude come una boutade apripista di tutta una schiera (oramai foltissima) di contest televisivi che figurano solo come una pallida imitazione, furbamente travista e banalizzata, ma risulta un qualcosa di più su cui vale appunto la pena speculare.

LE REGOLE DEL GIOCO (?)

Con la fortuna dell’estetica trash, del camp e del kitsch – favorita da Youtube in primis e da piattaforme che hanno reso virali contenuti sempre meno raffinati o elaborati nella forma e nella sostanza – in programmi televisivi e cinema di massa, vediamo oggi una produzione immensa di lavori che si ispirano più o meno esplicitamente ai vertici di follia di Takeshi’s Castle.

Ma la follia stessa di questo show è reduce di una certa tendenza nella narrativa, nelle arti e nel cinema contemporaneo, che recupera temi e motivi del mondo delle favole per inserirli in un contesto adulto e moderno. Nel Novecento abbiamo tantissimi lavori che volendo mostrare il disincanto della realtà “resuscitano” questo immaginario idillico dell’infanzia per gustarlo, sì, ma soprattutto per comprometterlo.

Basti pensare, tornando al nostro show, a quanto è anacronistico il castello di plastica da espugnare, dai colori stridenti e sintetici, e quanto in un Giappone ipertecnologico il passato sublime e mitico dell’impero del Sol Levante sia diventato una mera attrazione turistica. Come uno dei castelli più belli e celebri del Giappone, quello di Osaka, meraviglia bianco-verde sospesa in un anello di ciliegi in fiore nel mese di aprile, quello del tiranno Kitano è finto, ma ostenta la propria natura artificiale.

Si tratta di un gioco a premi costruito in modo decisamente sbilanciato: il rapporto fra la consistenza del premio in termini economici e le probabilità di vittoria è risibile. Non si tratta di gare di abilità o sfide di tecnica. È come se il meccanismo antropologico del sistema-gioco (come lo ha brillantemente concepito Roger Caillois) fosse stato manomesso e dall’agonismo si passasse al gioco di fortuna, virando in extremis verso la vertigine che si potrebbe provare su una giostra.

Mentre la visione globale, oramai appannata dall’adrenalina e dalla confusione, prendesse la forma di una mascherata quasi lugubre, ma non per questo meno simpatica. In fondo, non ci siamo forse dimenticati di un certo castello, e di un fantomatico premio?

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In Takeshi’s Castle tutto è finzione, nulla è illusione e tutto è parossistico. Un numero spropositato di concorrenti (100) si batte scompostamente come un’orda di lillipuziani in un mondo kafkiano (dove lo stesso casello è quasi inarrivabile come quello del racconto dello scrittore boemo) fotografato con un’estetica lo fi che ricorda quasi un certo avanguardismo statunitense.

Ma lo spettatore spesso non si accorge nemmeno di tutto questo, limitandosi a ridere vedendo i concorrenti farsi male in modo più o meno demenziale. Le etichette si sprecano, ma il genere postmoderno e quello cult fanno qui il ruolo del leone, anzi, del dragone.

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LA VERSIONE ITALIANA (O DI CAMUS)

Quello che abbiamo descritto è quasi un Mito di Sisifo nipponico, ancora sottomesso alla pesantezza del destino greco e la condanna è la ripetitività di un gioco di cui si perdono le regole e il senso generale. È vero, l’esistenzialismo qui non c’entra, anche se Camus rifiutava questa etichetta, ma sicuramente quello che vediamo è vicino al teatro dell’assurdo.

La mancanza di doppiaggio dal giapponese all’italiano fa da contraltare a un commento ironico (grazie alla sagacia della Gialappa's Band) che si sovrappone come un registro di non-senso “altro”, volto a esaltare tutte le incongruenze ludiche. Perfino a creare delle narrazioni e dei topoi alternativi sovrapposti a personaggi parte di un cast fisso che è a sua volta una parodia di certi modelli narrativi stereotipati.

Così esiste un mondo “esotico” – l’Oriente di cartapesta di Takeshi’s Castle – fatto di miti di cui non si capisce nulla e di cattivi sadici e machiavellici che non sono estranei al senso di ridicolo generalizzato. Ma chi è il cattivo? Davvero è il castellano che si vuole espugnare da quel baraccone pretenzioso chiamato pomposamente “castello”?

Con cui si combatte in pochi minuti una battaglia finale (che si presume dovrebbe essere epica) destinata ad avere esiti comunque insoddisfacenti. Potremmo pensare che il cattivo non sia uno, ma siano tanti, e siamo noi, il pubblico. Parafrasando un collega di Camus, potremmo dire che l’inferno siamo noi, spettatori e concorrenti, in questo inferno che è un gigantesco parco giochi dove si fanno sempre le stesse cose ma senza sapere bene perché.

GIOCHI CRUDELI

Ricordiamo Kitano per un altro gioco celebre Battle Royal (Kinji Fukasaku, 2000), film epocale per certi versi, che mostra attraverso un gioco al massacro sublime l’estremizzazione del sistema capitalistico in Giappone, competitivo ai massimi livelli.

Qui lui interpreta il coach/kapò di una classe che subisce l’atroce destino di essere deportata su un’isola per riprodurre in scala ridotta quella che accade a un’intera nazione quando le pressioni sociali giungono a un punto di non ritorno.

Si potrebbe obiettare che la società non conduce veramente gli individui ad ammazzarsi fisicamente, come vediamo accadere sullo schermo, ma sarebbe ingenuo negare che c’è un fondo di verità in tutto ciò. Come in Takashi’s Castle, qui tutto accade senza senso e a prevalere è l’immagine crudele di una condizione umana in cui tutto è sgranato e privo di contorni.

Come nel cinema di Kitano l’uomo medio borghese è una marionetta, risucchiato nel giogo delle grandi aziende o dalle trappole del sogno eversivo malavitoso e i finali sono spesso tragici, conducendo i protagonisti alla morte o al suicidio.

Se dobbiamo trovare un minimo comune denominatore a tutto questo penso proprio alla violenza. Anche un altro grande regista nipponico, Takashi Miike, con As God’s will (2014) e Il canone del male (2012) mostra attraverso due giochi ugualmente sadici e crudeli il lato violento di una società che non può più distogliere lo sguardo da un disagio che è diventato così riprodotto e telegenico perché così vero.

Tuttavia, noi possiamo diventare momentaneamente quel “Sisifo felice” di cui parla Camus, accettando gioiosamente l’assurdo della nostra condizione, immergendoci in una visione che non ha né vincoli né freni, se non quello di condurci a un riso becero che, abbiamo visto, contiene molto di raffinato.

Se nella vita il progetto di Camus può risultare utopico, non lo è nello spazio della finzione, in quello psichico dell’immaginario e in quello sociale dell’intrattenimento.

Proprio grazie al valore artistico di uno show che nella sua apparente “stupidità” si mostra molto vicino alla sottigliezza di certa arte contemporanea erede della lezione duchampiana. Quella che sacrificando la facciata della seriosità e dell’ufficialità ha scoperto nella struttura del gioco e dell’ironia una formula vincente.