Primo sangue, il trentesimo romanzo di Amélie Nothomb

Il 24 febbraio è uscito il trentesimo romanzo della più celebre scrittrice belga. Primo sangue è il nome di questo testo, in cui Amélie Nothomb intraprende un viaggio nella memoria, che ci (ri)porta nella sua bistratta e mitizzata terra d’origine. Patrick Nothomb, ovvero suo padre, è il protagonista di questa fiction familiare scritta a seguito della sua improvvisa scomparsa. Attraverso questa scelta drammatica, l’opera letteraria diviene un mezzo d’elezione per elaborare il lutto, soluzione al contempo adottata per raccontarci qualcosa di lei da una prospettiva inedita.

            La trama si struttura attorno ad episodi altamente rappresentativi della vita paterna, partendo dall’infanzia e intersecando processi storici come il colonialismo, e sociali come l’identità, intesa quale crocevia di nomi, tradizioni, assenze. Così si racconta dell’evanescente “presenza” di una madre sola e distante, di nonni stravaganti e una famiglia nobiliare che vive in un maniero fatiscente, abbracciando un periodo che va della Seconda Guerra mondiale fino agli anni Sessanta. I numerosi e affiatati fan della Nothomb saranno entusiasti di ritrovare in tale castello il modello di riferimento di quello de Il delitto del conte Neville, cogliendo la presenza di altri motivi e temi ricorrenti nella sua produzione letteraria. Questo romanzo è come uno scrigno: pieno di oggetti preziosi e impolverati, relique opache e luccicanti che rivelano l’ispirazione primaria di tanti contenuti della sua (ormai) lunga e prolifica carriera di romanziera.

 

La storia che irrompe

            Un plotone di esecuzione si innalza nella prime pagine, offrendo un incipit vagamente dostoevskiano. Siamo nel Congo Belga, e il destino di Nothomb padre sembra segnato. Scopriamo che soffre di emofilia, cosa che per imbarazzo ha sempre cercato di celare nel corso della sua vita. Questa volta a causargli uno svenimento potrebbe non essere la vista del sangue degli altri, bensì la visione del proprio sangue di condannato a morte. Tuttavia, questo è solo uno squarcio: si tornerà più avanti sulla genesi di questo incontro solo apparentemente fatale.

            A seguito del presente flashforward, la narrazione comincia dalle origini, raccontandoci di un precoce e terribile lutto: quello del padre di Patrick, figura che non ha mai potuto conoscere. Il romanzo inizia mettendo in scena questa morte, così come Amélie trova l’ispirazione per scrivere la vicenda a seguito dalla morte del proprio padre. Questo primo rispecchiamento è solo uno dei tanti momenti in cui i vissuti interiori di padre e figlia si intrecciano. Fra i due, infatti, vige un rapporto intenso, simbiotico; profondimene radicato nei processi di identificazione della prima infanzia.

Nei romanzi che l’hanno resa celebre, racconta di come venisse vista da tutti come una piccola versione del padre. In Sabotaggio d’amore, Nothomb figlia racconta di una gag ricorrente in famiglia, quando nel loro appartamento da ambasciatori a Pechino invitavano amici e colleghi la sera. In queste occasioni mondane, lei affermava “io sono Patrick” – imitando modi e toni del genitore – facendo sbellicare tutti dalle risate. Anche nei romanzi cronologicamente successivi della saga familiare questo legame primario sarà più e più volte esplorato, ribadito e criticato, con effetti spesso tragicomici.

 

 

Amore e parricidio

Domenico Trecozzi in Amélie Nothomb o il corpo espiatorio offre un’analisi intrigante dell’opera della scrittrice. L’autore legge e interpreta la sua opera omnia attraverso i concetti della teoria di René Girard, e in secondo luogo della psicanalisi lacaniana. Uno sguardo spietato, che rileverebbe disseminati nel corso della propria produzione numerosi tentativi metaforici di parricidio. Per citare un caso, in Metafisica dei tubi descrive un episodio particolarmente esilarante. Durante una tranquilla passeggiata fra padre e figlia, dopo giorni di intensa pioggia, lui cade improvvisamente in un tombino aperto, ritrovandosi nelle fogne allagate di Kobe. In questa narrazione lei rappresenta sé stessa come una bambina spavalda, che anziché preoccuparsi di chiamare velocemente i soccorsi a seguito dell’appello paterno lo lascia diverse ore ammollo in quell’anfratto pericoloso e lugubre, simbolicamente prossimo all’averno, al regno dei morti. Tuttavia, questa trovata – così come innumerevoli altre – testimonierebbe forse piuttosto un atteggiamento irriverente, da enfant terrible: Nothomb non distrugge mai il padre, semmai lo irride. Forse un tentativo, sempre simbolico, di smarcarsi da un’identificazione posticcia, troppo velocemente applicata dall’esterno, e per questo faticosamente e continuamente rigettata. Amelie non è Patrick, e le differenze sono eclatanti. Tuttavia, fra di loro, come un filo invisibile, esiste una connessione profonda.

 

Un eredità da riscrivere

Ritorniamo al nostro romanzo, Primo sangue.

            Il sangue, materia calda e viscosa, unisce padre e figlia. La morte è qualcosa di freddo, improvviso, incomprensibile. Intingere la penna in questo medium carnale, organico costituisce un gesto doloroso e forse necessario per (ri)attraversare un abisso di pena, una discesa agli Inferi per recuperare ciò che di speciale e prezioso ha lasciato questo rapporto. Storie, racconti bizzarri e tragici, vicende intime e spezzate, sono cocci rotti e tristi alla luce del terribile evento della morte, relitti alla deriva che Nothomb raccoglie scavando nella propria memoria, accorrendo presso quei lidi dove l’onda del ricordo li ha fatti arenare. Traduce con il linguaggio dell’amore questa eredità frammentaria in qualcosa di vivo, intero, completo. Questo condensato di affetto verso il padre, la sua vicinanza a dispetto della cruda separazione che li divide, è il collante che unisce tutto, e viene donato al lettore attraverso slanci e inflessioni di cristallina bellezza.

            Il linguaggio della letteratura ha salvaguardato, ricostruito con i suoi artifici magici e misteriosi, quello che la vita ha interrotto. Tutte le separazioni sono difficili, ma se non è sempre possibile ottenere un lieto fine, lo spazio della creazione artistica rappresenta il luogo ideale del riscatto. Nella disposizione all’ascolto e al dialogo, infatti, possiamo trasformare i silenzi in parole e le rotture in pagine bianche. I vivi restano per testimoniare, farsi carico dell’eredità di chi non c’è più, di chi non aveva voce e strumenti per farsi sentire. Scrivere, riscrivere la propria storia è stato un modo congeniale a Nothomb per affrontare traumi e sofferenze, dargli un nome e una forma. Ha costruito una carriera attraverso questa produzione quasi voyeuristica di autofiction, erigendo perfino un mito contemporaneo. Questa volta si trattava di fare qualcosa di leggermente diverso: accogliere l’esperienza di qualcun altro, il lascito di una persona speciale, per trasformare il proprio dolore in arte. Un omaggio sentito e un’occasione di confronto sul terreno letterario, vera “casa” della scrittrice, come ha più volte affermato in testi ed interviste. Ma anche un modo per risalire indietro nei meandri nella propria storia personale e raccontarci dell’origine della sua esistenza, grazie ad un colpo di scena che inscrive le ragioni di tale nascita all’interno di un episodio emblematico, che ci guardiamo bene dal disvelare.

            Costruire un canale di comunicazione privilegiato fra sé e l’altro, oltre un muro impenetrabile di incomunicabilità, è il gesto commovente ed eroico che Primo sangue compie. Nel fare ciò abbraccia i lettori in questa impresa, rendendoli partecipi di un’avventura intima e coinvolgente, dallo stile inconfondibile.

Titolo: Primo sangue

Casa editrice: Voland

Edizione: 2022

Pagine: 128

Costo: 16€