Limonov: il mito della grande Russia o del grande ego
Il 5 settembre è uscito nelle sale Limonov, diretto da Kirill Serebrennikov, adattamento del celebre romanzo di Emmanuel Carrere. Avvelandosi della grandiosa interpretazione di Ben Whishaw, il film, tuttavia, non è un tripudio di vita, musiche e colori come sembrava annunciare il trailer, né la stilosa presentazione a Cannes. Nella parabola storica fra personalismo e internazionalismo, Oriente e Occidente, realtà storica e finzione romanzesca qualcosa stride, e forse proprio questo rumore graffiante di sottofondo, così attenuato (se non censurato), è quello che rende piatta la resa finale dell’opera, riuscendo a risultare decisamente più compiacente che divisiva rispetto al personaggio (reale) che l’ha ispirata.
Sostenere lo sguardo: una sfida egoica.
Limonov di Carrere, pubblicato nel 2012, non è una biografia tradizionale, ma piuttosto un romanzo che narra le avventure rocambolesche di un uomo che ha attraversato vari mondi e ideologie. Ėduard Veniaminovič Savenko, in arte Limonov (morto nel 2020), è nato nel 1943 in Unione Sovietica, ha vissuto una giovinezza difficile, è diventato un dissidente, un emigrato in Occidente, un buttafuori a New York, e successivamente uno scrittore di successo a Parigi, fino a rientrare in Russia alla fine della sua vita. Lo scrittore vuole “incontrare” l’anima errabonda di quest’uomo per paradossalmente unirsi alle sue origini russe, esperienza di avvicinamento che aveva già compiuto con Un romanzo russo (2007).
Nel film di Kirill Serebrennikov molti dettagli sono stati omessi, col regista che preferisce concentrarsi sulla voracità del protagonista, determinato a emergere a qualsiasi costo. Limonov viene presentato come un uomo capace di distruggere le élite per poi, paradossalmente, cercare il loro riconoscimento e sostegno, in una tensione costante tra ribellione e sottomissione al sistema. Se nel libro la sua figura emerge come complessa e sfuggente, capace di suscitare reazioni contrastanti nel lettore, la trasposizione cinematografica sembra rimanere troppo ancorata alla superficie, riducendo la ricchezza psicologica del personaggio, come anche il mistero del suo personaggio mediatico. Invece di esplorare le sfumature contraddittorie e l’ambiguità che lo rendono unico, il film si limita a seguire una narrazione biografica (da classico biopic da serie tv), sacrificando la parte finale della sua esperienza di vita, con tutte le implicazioni politiche più controverse. Dal punto di vista formale, il film assume una struttura quasi musicale, iniziando con toni leggeri e armoniosi, per poi crescere in intensità, seguendo le vicende tumultuose del protagonista. La fase ambientata a New York si trasforma in una sinfonia rock, che culmina in un crescendo drammatico dai toni hard rock, fino a rivelare un’anima profondamente punk, anarchica e nichilista che tuttavia non riesce a fare breccia.
Su un punto, in particolare, laddove il romanzo risultava convincente, il film perde di mordente. La storia – sicuramente unica - del personaggio, è rocambolesca, equivoca e paradossale, ma si smarca dal romanzo di Carrere facendo sparire la figura del narratore, dell’incontro fra l’autore parigino e la personalità indomita del russo. Certo, fugacemente lo vediamo, ma Limonov non si mostra più indirettamente, mediato attraverso la personalità letteraria schietta e al contempo contorta che lo elegge quale sorta di doppio impossibile, alter ego desiderato e insieme temuto.
La potenza dell’autofiction, infatti, stava precisamente nel confronto fra le due personalità. La secchezza della penna di Carrere smorzava certi eccessi tragici e lirici che qui vediamo trionfare. Certo, è irritante vedere scorgere fra le righe la fascinazione un po’ “facile” e smielata. Limonov è un po’ l’uomo d’azione che gli intellettuali a fine carriera si rendono conto che sarebbero voluti diventare da giovani, rendendosene conto retrospettivamente, quasi una fantasia senile. Questa identificazione con un’identità iper-virile ed engagé, un uomo che non si sarebbe sottratto alle sfide della Storia con la s maiuscola, è un buon mix, furbo e convincente a modo suo. Insomma, ci sono tutti gli elementi per elevare la figura del russo maledetto a sorta di idolo del nostro ego, per consentire un’identificazione eccessiva con lo spettatore, preda anche lui di questo incantesimo, una grande illusione come un American Dream al contrario.
L’anima bobo di Carrere si è rivelata nella sua grandiosità con il piccolo pamphlet Calais (2016) – dove la sua posa radical chic trionfa – e Yoga (2021), dove l’autofiction raggiunge vertici di auto-voyeurismo allucinati. Insomma, gli elementi per rendere il gioco di fascinazione-repulsione, esercitata sia dal suo Io letterario sia dal suo doppio russo ci sono tutti. Eppure se un ego è ingombrante, due che si confrontano su un terreno così diretto, fino a collidere, non lo sono altrettanto. Ecco, alla pellicola di Kirill Serebrennikov manca questo equilibro dialogico, sempre a rischio di esondare in qualche spiacevole eccesso, che – invece – su schermo mette in forma questo eccesso in una versione superficiale e pop, costruendo la sua poetica attorno a questa girandola esplosiva e fumosa che finisce nell’estinguersi nell’annuncio di una trasgressione auto-dichiarata e quindi auto-sabotata.
Lontano, no, nel cuore eccentrico della Russa
Quella di Limonov è la parabola di molti celebri russi, fatta di fughe e – talvolta – di ritorni. Agognati, rassegnati, desolati questi homecoming sono spesso raccontati come inevitabili, volontà imperscrutabile del destino. Quello che ci lascia la visione della pellicola pertiene precisamente a questo bailamme di emozioni e sentimenti, intrecciati ma anche raggelati nella asettica ricerca formale di Serebrennikov, che eleva Edouard Limonov a grande personaggio del Novecento, complice la colonna sonora che annovera pezzi storici e classici del rock. Troppo classici, oserei dire. La Russia di questi grandi autori del Novecento, invece, è arcaica, perduta perché nemica della vita individuale dell’indagine psicologistica come della vita sociale della storia corale, perché abita un territorio antichissimo e sempre attuale, quello dell’ispirazione sempiterna. Il cinismo ironico e dolente di Carrere, il pragmatismo fallace e romantico di Limonov danzano attorno a questo nucleo eccentrico, al ritmo di un battito remoto che ci ricorda che da qualche parte questo continente esiste ancora. Oltra la grandiosità di uno e il carisma dell’altro, c’è la Russia, insieme terra delle origini e materia viva da plasmare.
Un personaggio nel romanzo si avvicina tantissimo a questa poesia, e infatti è relegato sullo sfondo di questa vicenda, schiacciato dall’ego di questi “grandi” uomini. Si tratta di una giovane ragazza, Nastja, che si innamora di Limonov, e che gli resterà fedele quando verrà rinchiuso in carcere. Non è una ragazza da copertina, da ostentare come un trofeo, alla stregua della maggior parte delle sue donne o spasimanti, ma una ragazza normale, anche un po’ bruttina. Non è nemmeno il “grande negro” che esalterà come contraltare della sua divina amante, che lo abbandonerà non appena sbarcheranno a New York. L’omosessualità diventa una posa quando, invece, qualcosa di più reale di questo slancio erotico rivela ciò che idealmente incarna la sua figura, oltre il circolo vizioso dell’ego e della vanità:
«Non aspettarmi. Vattene. Devi vivere la tua vita e non puoi farlo con me. Tra noi ci sono quarant’anni di differenza, e Dio solo sa quando uscirò di qui. Trovati un ragazzo della tua età, pensa a me qualche volta, avrai la mia benedizione». Ma non riesce a dirglielo. Non soltanto perché tiene a lei, e perché nessun detenuto di nessun carcere al mondo respingerà mai l’amore di una donna, ma anche, e soprattutto – questo è almeno ciò che pensa Eduard –, perché quelle parole sarebbero un insulto per Nastja. Pronunciarle significherebbe trattare quella intrepida ragazzina da persona ordinaria, sottomessa alle regole comuni, mentre lei vuole con tutte le sue forze essere una persona straordinaria, un’eroina, l’unica donna degna dell’eroe che è Eduard, l’unica che terrà duro nella cattiva sorte e gli resterà fedele laddove tutte le altre lo hanno tradito.
Certo, “Appena rimesso in libertà, aveva scaricato la valorosa piccola Nastja per buttarsi su una di quelle donne di categoria A alle quali non ha mai saputo resistere”. Eppure lei non è sconfitta, ma vincente. Ha saputo connettersi con il substrato alla base della “grande incognita” Limonov, ha cercato la grandezza per lei e per lui, ci ha creduto e ha prodotto col suo amore qualcosa di diverso dalla sterile fascinazione per un personaggio mitico che si esalta, si critica e si dimentica come si confonde la realtà con la finzione. Nel regime della post-verità c’è posto anche per la post-ammirazione.
La fiducia alla base di questo amore richiama un sentimento viscerale, che si fa naturalmente arte, che rende le opere della grande tradizione russa tanto indimenticabili, anche quelle indirettamente ispirate da essa. In filigrana, la ragazza concorre a inseguire questo ideale di grandezza, incarnato da quest’uomo oltre sé stesso, oltre il giogo narcisistico che continuamente si (ri)specchia in Carrere, che riluce in modo frammentario nella miriade di ideologie abbracciate e abbandonate, nella sua opera polimorfa. Che concorrano fattori storici, contingenti, trans-culturali, alla base di questo artificio autentico, poco importa. Quello che importa è farsi interpreti di questa forza nascosta che canta le contraddizioni di un popolo e di una cultura, che anche nell’immaginario di un uomo mitico, - fra la sterile fuffa e la leggenda postmoderna - riesce a ridare lustro alla creativa nostalgia della Madre Russia, al grandioso sogno della sua terra che nutre il suo ego, fra rivoluzione e regressione. Non a caso, fra due uomini e una miriade di donne, è proprio lei, infine, a prevalere, matrigna fertile e indomita.