Lars Gustafsson, “Il pomeriggio di un piastrellista”
Precisi dati anagrafici - nome, cognome, anno di nascita, luogo di residenza, età al tempo della narrazione - ancorano saldamente il protagonista del libro alla realtà. Se fosse altrimenti, il racconto avrebbe i contorni brumosi di una favola, anzi, magari di una storia di fantasmi.
Invece, Torsten Bergman è nato nel 1917, vive ad Uppsala, ha sessantacinque anni e fa il piastrellista. È bene possedere tali informazioni, perché Torsten vive una di quelle esistenze di cui si ha contezza solo facendo fede alla fredda autorità dei documenti. In effetti, su Torsten si troverebbe ben poco, a ricostruirne la vita - non è molto, se ci si pensa, quel che si sa di lui -, tanto più che egli ormai rifugge l’umanità e anche le autorità, vivendo da solitario e accettando solo qualche saltuario lavoretto, purché pagato in nero.
Insomma, Torsten potrebbe non esistere: vive ai margini della società e della legalità, la sua macchina dio solo sa quando ha fatto l’ultima revisione e la sua casa - riverberandomi quella in disfacimento di Boris Vian - ha una stanza completamente allagata, dove, con un’immagine che ha tutta l’apparenza di una tangibile incuria ma che cela il simbolo e la poesia, si perdono oggetti e attrezzi e fors’anche i ricordi.
Una mattina Torsten viene svegliato dalla chiamata di un lontano conoscente che gli offre un facile lavoretto, ed egli accetta. Si reca quindi sul posto per trovarsi in una casa di cui non si sa bene chi sia il proprietario, se sia realmente in ristrutturazione o se non sia piuttosto abbandonata, dove i lavori sono lasciati a metà, peggio, sono stati cominciati bene e interrotti in preda a quella che Torsten, conoscitore della religione imbottigliata, non stenta a riconoscere come follia alcolica.
Insomma, ecco, niente di che.
Questo è l’inizio in sordina del breve romanzo di Gustafsson, i cui primi capitoli sono né più né meno l’illustrazione di una vita piccina, ormai avviata sulla china discendente della rassegnazione. A dire il vero non mancano in queste pagine le lampanti avvisaglie delle qualità del racconto, ma le prime quaranta pagine sono decentemente trattenute.
Poi, giungendo al quarto capitolo, «Ipotesi su Sofie K.», ci si accorge istantaneamente che il romanzo si rivela nella sua vera natura. Le pagine fino a quel momento sono state il filo dell’aquilone che non lo fa volare via, ma da adesso in poi il lettore si troverà in balia di correnti più o meno forti, e sarà portato in alto, nell’aria, lontano dalla realtà.
Il quarto capitolo apre magistralmente «le porte del paradiso» che più di una volta Gustafsson cita e che a me sembra di aver varcato, leggendolo. È un capitolo magnifico, davvero magnifico, ed importantissimo perché inizia a svelare la vita segreta del piastrellista.
Ebbene, Torsten, lungi dall’essere un banalotto, comincia il ricordo di una vita a ritroso, in «un tempo di sogni, un tempo onirico», dove la magia inquietante dell’attesa fa nascere fantasmi e invenzioni - un «mondo di congiuntivi», per citare il risvolto di copertina -, dove l’incertezza apre le porte alle memorie e alla loro malinconica poesia.
Insieme ai ricordi si intrecciano i simboli, che compaiono pressoché ovunque, come due bambini, o meglio, l’assenza di due bambini, simbolo del passato che rende più amaro il presente. Il passato, lo stadio infantile di una vita, lo stadio fresco dell’esistenza, è una visione nostalgica per Torsten, soprattutto quando sotto gli occhi ha lo sfacelo privo di forma e di ordine del presente.
La vita è quel processo entropico che porta inesorabilmente dall’ordine al caos e Torsten non ama il disordine. Egli è orgoglioso dell’affidabilità della propria memoria e della diligenza con cui segna i conti, fa il piastrellista con talento e lo osserviamo smantellare l’incoerenza della casa e ricomporla in file di piastrelle ordinate. Seguiamo i suoi pensieri per tutta la durata della lettura, mentre cerca alacremente una ragione alle stranezze altrimenti inspiegabili di quella casa misteriosa.
Eppure, anche l’ordine del piastrellista non si sottrae alle leggi del disordine. L’ordine che dà sostegno ad una vita altrimenti priva di appigli si rivela inconsistente. Non solo, man mano che procede nel lavoro, sembra che le cose attorno a Torsten si deteriorino, come a mantenere un crudele equilibrio del caos, ma la sopravvivenza stessa del lavoro svolto, di quel poco, è messa in discussione, poiché vengono progressivamente a mancare le sue giustificazioni, le sue ragioni.
Certamente le considerazioni che si traggono dal racconto sono molto amare. Ognuno fa quel che può con la vita che gli è stata data, ma «il problema è tutto qui, che noi non l’abbiamo chiesta». Questa è forse l’unica consapevolezza che possa alleggerire le spalle di chi vive - o sopravvive - dalla pesante responsabilità di quello che sembra l’ineluttabile fallimento dell’esistenza, come cita l’esergo di Sartre (posto, come lo definiscono con sagacia gli editori, come epigrafe del libro).
Nel corso della vita la gioia, se si trova, è saltuaria e sembra non dipendere dai propri sforzi: «c’è un unico attimo bello, ed è quando si vede come tutto si accorda, quasi da sé».
L’attimo di grazia è quello dell’ordine, poi le esistenze si scompaginano e deteriorano, loro malgrado.
La postfazione di Emanuele Trevi è davvero il prodotto di una mente pensante, e lo dico provando il piacere della sua lettura e dell’essere potenzialmente in disaccordo con quanto dice. Contrapporre pensiero narrativo e pensiero filosofico è un tema arduo ed affascinante, ma Trevi approda da qui all’idea che «la letteratura è la filosofia del singolo. Dà voce a una diffidenza per l’universale». Io credo fermamente nel contrario, ossia che la letteratura ha valore proprio quando, pur attraverso i racconti dei singoli, è in grado di comunicare universalmente a chiunque: non Madame Bovary ma il bovarismo, d’altra parte.
Proprio quando un autore diffidando dell’universale si concentra nel singolo allora ecco che fallisce.