La vitalità di una festa e delle sue rovine
Roma Pagana, venerdì 28 giugno 2024, EX Mattatio di testaccio
Nell'antica Roma tutto era sacro, soprattutto la natura. Ogni azione importante, come la fondazione di una città e la sua protezione, era legata ad un rito magico propiziatorio. Molti di questi riti si sono mantenuti nel corso dei secoli per giungere ai nostri giorni, parzialmente mutati dal Cristianesimo e dal folclore.
Se nelle province di tutta Italia, nei paesi, nelle campagne e in montagna sono rimaste numerose testimonianze di antichi riti pagani, a Roma la modernità e l'omologazione hanno cancellato quasi ogni traccia di queste antiche testimonianze. Fino al secolo scorso, ogni rione aveva la propria festa, dove si tramandavano antichissimi giochi come l'albero della cuccagna. Oggi invece sono scomparsi anche il mitico carnevale romano con le sue feste barocche e la celebre festa de Noantri di Trastevere.
ROMA PAGANA vuole essere un modo di riappropriarsi di un passato remoto, di vivere il rapporto con la propria terra e il proprio passato in maniera nuova e antica allo stesso tempo, di fare festa insieme cercando di liberare pulsioni e istinti grazie al nettare divino di Bacco ma anche tramite la musica, la poesia e le arti figurative.
Dalle 21 fino a notte fonda, nel cuore dell'Ex Mattatoio di Testaccio, si esibiranno percussionisti e mangiafuoco, dj e altri artisti, e tutti insieme prenderemo parte a un rito collettivo esorcizzante per purificarci dai mali del nostro presente.
L'ingresso è gratuito. Consigliamo di indossare un accessorio che rimandi al paganesimo, come un amuleto, un copricapo o una particolare veste.
Ma dove si situa il confine fra festa e rituale?
L’immaginario festivo pagano è oggi dominato dall’esuberanza bacchica di un Dio ebbro e promiscuo. Quando pensiamo a un’orgia, a una festa in una villa pompeiana, a una fontana che erutta vino, lui, il doppio Dioniso/Bacco, si prende tutta la scena.
Che sia rappresentato imberbe e marmoreo, bello come, appunto, un Dio, o rubicondo e compiaciuto, come la sua parodia godereccia, poco importa. Il dio del vino, si sa, è una figura carismatica, che nella sua veste greca – più che in quella romana – mostra ombre che non si estinguono dopo il torpore di lunghe serate passate a bere, legato com’è a rituali e sacrifici di origini remota, rovescio oscuro della nostra contemporanea idea di festa.
Ma dove si situa il confine fra festa e rituale? Come la catarsi dell’alcol, delle risate, della musica si incontra con quella giubilatoria dello spettacolo di un animale che viene sgozzato o di una danza macabra attorno a un fuoco?
Il rituale, nella sua intrinseca natura, è violento. Contiene sempre un elemento efferato che è essenziale alla vita, per garantire l’accesso a una forma di pienezza quasi trascendente, nel suo deciso e paradossale affondo nell’immanenza del corpo e della carne, un aspetto che è necessario, al contempo, elidere nella quotidianità, nella vita di tutti i giorni. Che si situi al centro della vicenda sociale di una cultura, come il rituale religioso, o ai margini, come una serata d’estate in uno spazio aperto, in ogni caso c’è qualcosa in questi eventi così simili e così diversi che ci attrae e ci sfugge, un limite verso cui tendere, che ci spalanca scenari fuori scala, deformi e deformanti.
Dioniso, non a caso, è un Dio della sproporzione. La sua stessa nascita, all’interno del mito è violenta come poche altre, scindendo la stessa idea di origine della vita come qualcosa di organico e naturale, attraverso lo scenario orrifico di un parto che trasforma la maternità da culla femminile a ventre aperto. Semele, infatti, che lo portava in grembo, uccisa alla vista di Zeus, viene disintegrata prima ancora di metterlo al mondo, costringendo il padre dell’Olimpo a raccogliere e attaccarsi il feto del figlio alla gamba, per permettergli di così sopravvivere, di rinascere. Anche la nascita è un rituale, un rituale dove l’identità si scompone e si ricompone, come le immagini frenetiche di una festa musicale e danzante. Le Baccanti di Euripide, ci ricordano, inoltre, come l’efebico e delicato Dioniso sia un degno discendente di divinità oscure e torbide di pantheon religiosi confusi e commisti dell’Asia Minore, dove le identità di questi idoli si scindono e si unificano in un ritmo febbrile ed eccitato.
La sua iconografia romana, invece, rilevata successivamente dagli artisti del Cinquecento e del Seicento, accentua il carattere lascivo e mondano del godimento. L’aspetto simpatico smorza quello problematico, e ben presto diventa un personaggio pittoresco. Gli artisti di quei secoli esaltano una corporeità morbida e languida, un desiderio passivo e ozioso, emblema della decadenza di una civiltà colta e annoiata, al contempo annodata su ossessioni e nevrosi figurative che mettono in luce il conflitto irrisolto fra cristianesimo e paganesimo. Ma il significato antico, e atavico, che la figura di Dioniso/Bacco porta con sé non si estingue in un colpo d’occhio, non passa come la sbronza dopo una notte bianca. Come può una serata d’estate ricordare un antico culto? Come può la storia sopravvivere in immagini, musica, performance che mirano ad accogliere proprio quel corpus di sensazioni e visioni, per cercare di rievocarlo consapevolmente? Non per dimostrare che siamo dei maghi, ma che – infondo – quel patrimonio commisto di storie e emozioni ci abita ancora, anche (e forse soprattutto) quando non ce ne rendiamo conto.
Innanzitutto, bisogna partire dalle immagini, letteralmente attraverso la prima suggestione figurativa del genius loci della serata: il simbolo scultoreo del mattatoio, il genio alato che doma il toro, posto sopra l’ingresso trionfale del complesso. Attraversare la sua fisionomia con lo sguardo, compiere questo semplice gesto con gli occhi richiama già alcuni elementi rimossi dalla nostra percezione comune. Innanzitutto, questo oggetto decorativo si trova in alto, dove l’abitudine ci spinge a non soffermarci troppo, sempre attenti a ciò che sta davanti a noi, alla nostra portata. Ma questa altitudine al contempo spalanca un abisso: un’immagine tutto sommato bella, delicata, elegante incornicia un luogo di morte, un edificio che richiama un tempio nonostante il mattatoio sia la nemesi di un vero tempo. Anticamente, fuori, e non dentro i templi greci e romani, si perpetravano sacrifici che miravano idealmente a non macchiare né la dignità dell’animale né quella nel suo culto, e nemmeno quella del luogo di culto. Il toro esposto in pompa magna, su un ingresso che sembra un altare, è una versione edulcorata del destino riservato in massa ad animali meno nobili, costretti a un destino di oblio. Ma in questa storia di degradazione non si perde solo la vita dell’animale, ma anche quella del rituale, del sacrificio e – last but not least – della festa.
Oggi, non si tratta di rimpiangere nulla. Nessuna fantasia utopistica e regressiva guida verso l’esplorazione di questo mondo sempre perduto e mai completamente perdibile. Il Mattatoio di Roma è una rovina in ottima forma, luogo di cultura, svago, aggregazione. Proprio la vitalità delle rovine – fra archeologia classica e industriale – ci permette di connetterci con la malinconia estatica e il fascino anacronistico di tali suggestioni, tali rimanenze che intrattengono ancora un rapporto con la nostra vita. Dioniso è ancora fra di noi, lo è come un fantasma in certi momenti, e lo è anche il Toro sacro, ognuno presenti sia nelle loro vesti magnifiche che in quelle dimesse, in un’alternanza di sensi e compromessi. Così, in modo provocatorio, possiamo giocare con le suggestioni che ci attanagliano la mente, con il mito, con la poesia, con l’arte e anche con la sotterranea traccia di cupa violenza che tutto questo patrimonio ancora non ha finito, e mai finità, di smaltire, nei secoli della nostra cultura e della nostra identità. Smarriti un caleidoscopio di reminiscenze, in questa occasione ciascuno potrà viversi la propria esperienza pagana, (ri)costruire con cocci e frammenti la propria Roma Pagana, una festa dove il protagonista siamo noi e la nostra esperienza senza confini, divina e profana, singolare e plurale.