Svelati nel cuore di Roma i segreti del liutaio dell'Opera
Seguite il violino che passeggia insieme al padrone in via S. Maria Maggiore, nel Rione Monti, e vi condurrà dritti alla liuteria di Mathias Menanteau. Qui dentro vi potrebbe capitare di incontrare un componente delle orchestre più prestigiose del mondo: perché è uno dei punti di riferimento dei musicisti dell’Opera. L’atelier di Mathias, un tempo, era un forno. Poi, dal 2010, il liutaio francese l’ha trasformato in una bottega accogliente, piena di arnesi e di strumenti da ammirare. Dentro si sente il profumo del suono e il calore del legno. Ma non ditelo a lui, perché vi risponderebbe scherzando: “Vuoi mica far scappare i musicisti?!”.
Com’è nata la passione per la manualità?
Ho sempre lavorato con le mani. La mia infanzia l’ho vissuta in un posto che adoravo e che non ho mai smesso di amare. Mio padre era un muratore e aveva una bottega piena di polvere. Mi sono detto: “Vorrei lavorare così, su un bancone. Però voglio il mio posto bello, caldo, comodo e con la musica”. E allora me lo sono ricreato. Nei luoghi in cui ho vissuto c’è sempre stato un atelier, anche quando ero studente e affittavo un’unica stanza che ho trasformato in una bottega. Lì avevo un angolo dove c’era il letto e il resto dello spazio era occupato da un banco di lavoro e dalla musica.
Quando ti sei avvicinato alla seconda arte?
Ho studiato chitarra classica e poi ho deciso di unire la passione per il lavoro artigiano e quella per la musica.
Quali generi ascolti?
Un po’ tutti, ma il nostro lavoro ci porta soprattutto ad ascoltare musica classica.
E mentre lavorate ne ascoltate?
Sì, quasi sempre.
Dove hai studiato per diventare un liutaio?
In Inghilterra, a Newark.
Accanto a Mathias c’è un suo collega, a cui faccio la stessa domanda. E tu Nicholas? Dove hai studiato?
Nicholas: “Ho studiato in America e a Cremona”.
La città patrimonio dell’Unesco per la tradizione dei liutai. Perché lo è diventata Mathias?
Perché lì ci sono stati i più grandi liutai in assoluto: Amati, Stradivari, Guarneri, Ruggeri e così via. Già nella prima metà del Cinquecento il capostipite Andrea Amati costruiva strumenti per il Re di Francia, Carlo IX. E alla fine del Seicento, Antonio Stradivari, probabilmente allievo di Amati, aveva come clienti la corte di Spagna. Per loro ha costruito diversi quartetti intarsiati. Poi, negli anni Settanta del Novecento, a Cremona è stata fondata la scuola della liuteria. Si può dire quindi che è la culla dei più grandi liutai mai esistiti.
Se non sbaglio, lì per ogni strumento vengono modellati ed assemblati a mano più di 70 differenti pezzi di legno.
A questi 70 non si arriva mai. Un violino ha tra i 40 e i 50 pezzi. Sai com’è, nei libri spesso esagerano. Ciò che è importante da sapere è che, oggi, la maggioranza dei liutai si rifà alla tecnica italiana, in particolare cremonese.
Per chi non la conoscesse?
Prima di tutto si fa la forma, un po’ come accade per le scarpe, e su questa si montano le fasce dello strumento, la parte laterale. È la tecnica cosiddetta “interna”, che lascia più spazio alla creatività. Poi c’è anche quella “esterna”, nata nell’Ottocento quando la produzione di strumenti musicali è diventata di massa. Permette di fare più copie, ma si perde in creatività.
Tu hai un modo particolare?
No, ho i miei trucchi personali. Ma, come la maggior parte dei liutai, uso anche io la tecnica di Cremona.
Quali trucchi?
Ad esempio la vernice.
La fate voi?
Sì, è un miscuglio. Ci sono un’infinità di ricette ma, come in cucina, con la stessa ricetta vengono poi prodotti diversi. Una buona vernice è un giusto equilibrio tra resine dure e morbide. La resina più usata è la gomalak, che rappresenta il 60-70% della vernice. Nei secoli si è scritto molto sulle vernici, soprattutto su quelle dei grandi maestri e dei loro segreti. Per me non ce ne sono, è un mito. In realtà, quello che conta è solo il modo di fare: e ognuno ha il suo.
Perché c’è questo mito delle vernici?
Perché fa sognare pensare che i grandi maestri sono morti con i segreti della loro vernice. C’è un grandissimo liutaio, Simone Fernando Sacconi, che era molto attivo a metà Novecento. Ha fatto carriera a New York dove ha restaurato numerosi strumenti importanti e poi ha deciso di scrivere un libro: I segreti di Stradivari, che è un po’ una bibbia per noi liutai. Il titolo è accattivante e molti lo hanno comprato per conoscere i segreti dei grandi maestri. Ma, in realtà, già nelle prime pagine Sacconi smonta il titolo del proprio libro, dicendo che non ci sono segreti, ma soltanto tecniche.
Quante mani di vernici servono per uno strumento?
Dalle 15 alle 30, tutte con il pennello. Quei barattoli che vedi sullo scaffale sono tutti pieni di vernice.
Avete davvero tantissimi arnesi nella bottega.
Ne usiamo un centinaio ogni giorno e neanche ce ne rendiamo conto. L’unico macchinario che ho qui è la sega a nastro, il resto si fa tutto a mano. Ti voglio parlare di un arnese in particolare: si chiama nocetta, in francese noisette come la nocciola. È una piccola pialla che serve a scolpire le bombature dello strumento. Si chiama così per la forma, che ricorda il frutto, e perché è lunga meno di un centimetro.
Avete anche tanti prodotti qui.
Un elemento che non mancherà mai in un atelier di liuteria è la colla, che serve a mettere insieme i pezzi. Noi usiamo una colla animale, che scaldiamo ogni volta prima di poterla applicare. È conosciuta anche con il nome cervione e si adopera da secoli. La usiamo perché è reversibile, ovvero ti permette di riaprire lo strumento.
Come fate a toglierla?
Usiamo delle siringhe piene d’alcool, che distruggono le proteine della colla. Ma devono essere maneggiate con grandissima cautela, perché lo spirito può danneggiare la vernice.
Tra i vari utensili appesi alla parete ce n’è uno che assomiglia a una mazza. E quello a cosa serve?
Questo in origine era un birillo, ora lo uso come massetta per fare scultura, come un martello. Solo che, mentre il martello lo puoi usare solo in un senso, questo, essendo rotondo, lo puoi adoperare diversamente. Lo uso per scolpire la testa, il corpo: un po’ per tutto.
Come si costruisce una testa?
Prima si taglia il profilo con la sega a nastro, poi si fanno dei tagli con la sega a mano e infine si fanno saltare le parti in eccesso con una sgorbia per creare il riccio.
Cos’è?
È la parte finale della testa ed è la firma del liutaio, perché ci si può mettere la propria personalità dal momento che non influisce sul suono. Si chiama così perché ha una forma che gira, come quella dell’animale. I violini sono strumenti barocchi, prendono tante forme che ci sono in natura.
Sai, spesso quando faccio un riccio penso a Michelangelo. Lui diceva che l’opera è già all’interno del blocco di marmo e lo scultore deve solo tirarla fuori.
Sul piano di lavoro poi noto una lampada simile a quella che si vede negli studi odontoiatrici. Questa lampada che stai utilizzando per illuminare il piano di lavoro sembra quella del dentista.
È così. A me piace avere le cose comode, pratiche.
Qui sul tavolo di lavoro vedo che stai usando anche un pettine per lisciare i crini dell’arco del violino e un phon per asciugare la colla con cui ripari alcuni pezzi degli strumenti.
Sono un po’ feticista sugli attrezzi. Mi piace lavorare con attrezzi comodi, piacevoli da tenere. E con poca plastica, che a me non piace. È bandita dall’atelier.
Qui costruite anche strumenti ad arco?
Sì.
Quanto ci si mette a crearne uno?
Settimane e settimane, anche mesi.
Che differenza c’è tra uno strumento di bottega e uno seriale, di fabbrica?
Un liutaio della bottega si adatta al pezzo di legno, mentre questo non accade in fabbrica. E poi, per una produzione seriale, ci si limita ad assemblare i diversi pezzi. In bottega, invece, c’è una simbiosi tra ogni elemento che va a comporre lo strumento.
Com’è cambiata la qualità degli strumenti?
Oggi c’è una standardizzazione. Con la tecnologia si raggiunge una qualità molto alta, ma si perde la ricchezza della diversità. Un tempo, uno strumento a Napoli era diverso da quello di Cremona. C’erano delle particolarità stilistiche che davano un’impronta. Inoltre si aveva una liuteria più grezza, meno attenta ai dettagli. Ora, invece, siamo abituati a vedere prodotti fatti molto bene, simmetrici, perché sono costruiti con le macchine. E questo significa che sono quasi perfetti, ma che, allo stesso tempo, possono risultare freddi: perché la bellezza di uno strumento è non essere perfetto.
Lo stile, invece, l’abbiamo perso; perché non c’è più il gusto delle forme: infatti sono pochi gli artigiani che fanno sculture. Oggi si usano i macchinari. Una volta, invece, c’era più capacità di disegnare e di fare sculture. C’era una ricerca dell’estetica, un gusto del dettaglio. Non voglio essere passatista, ma dobbiamo renderci contro che in Europa, e in Italia soprattutto, la bellezza è ovunque. Però, molto spesso, non viene rispettata.
Quando restaurate, invece, come intervenite sul suono?
Se hai davanti uno strumento già finito, devi prima capirlo. È come una persona: devi innanzitutto conoscerla, perché ha una sua anima. Di solito, ho la mia idea personale di come potrebbe essere il suono ideale, ma devo sempre confrontarla con il cliente. Spesso la nostra visione coincide, ovvero un suono dominante sull’acuto e bello pieno sui bassi. Questo è l’ideale estetico dello strumento.
Strumento più difficile da restaurare?
Questa è una domanda difficile. Più che la difficoltà è il tempo impegnato.
Interviene Nicholas: “Un restauro fatto bene è quello che non si vede. Tutt’uno con lo strumento”
Quale legno usate?
Nicholas: “Abete per il piano armonico, acero per il fondo, le fasce e il manico, e il salice per alcuni elementi all’interno. Per quanto riguarda la tastiera, si usa l’ebano. Per i piroli e la cordiera si adoperano invece bosso, palissandro e anche ebano. Poi ci sono casi rari come il pioppo, che si usa prevalentemente per i fondi di violoncello e viola, che sono più morbidi”.
Dove prendete il legno?
Mathias: Da vari fornitori. Di solito mi reco in montagna da chi taglia il legno e oggi ne uso uno stagionato da più di 50 anni.
Non avete paura che si rovini?
Il legno migliora nel tempo. La riserva di legno del liutaio è un po’ come una cantina per un sommelier. Nel tempo acquista valore.
Preferisci il restauro o la creazione dello strumento?
È più complicato il restauro della creazione. È come avere una sola pallottola, perché, se hai modificato qualcosa male, l’hai danneggiato. Poi puoi riparare, ma rimarrà il danno. E noi spesso passiamo il tempo a riparare ciò che era stato riparato male.
Qual è il rapporto con i musicisti?
Quando portano il loro strumento è come se lasciassero una loro parte. Ci passano più tempo che con il loro partner. Per questo, quando riparo, mi sento un dottore che cura una persona.