Il successo degli zombie nell’immaginario collettivo dovrebbe preoccuparci?

Pervasivi nell’universo cinematografico, e ben poco rappresentati in altri media, gli zombi oggi, dopo il successo degli anni Settanta, spopolano nelle serie tv. Non hanno il fascino pericoloso dei vampiri, la bestialità sensuale dei licantropi, la suadente inquietudine dei fantasmi: non hanno niente. Brutti, noiosi e senza personalità, non si capisce bene perché attraggono tanto, eppure a ben vedere le ragioni non mancano. Ragioni, che raccontano uno spaccato della nostra condizione culturale, che riguarda il modo in cui guardiamo il passato e (non) guardiamo il presente. In questa riflessione vogliamo offrire una possibile risposta a tale quesito, attraversando il percorso accidentato che questi morti viventi hanno attraversato fino ad oggi per diventare così popolari, interrogandoci sulla varietà informe della loro iconografia marcescente e postmoderna, risalendo alle loro radici, fin dentro la tomba.

Il testo di Linda Nochlin racconta bene la rivoluzione realista nella pittura nell’Ottocento quando sostengo che apparvero i primi proto-zombie dell’immaginario collettivo.

Un mito moderno senza mitologia

 

È vero, gli zombi hanno un’origine legata a una credenza popolare haitiana, ma davvero la loro iconografia contemporanea se ne fa qualcosa della filologia? Il concetto – ben più ampio e inclusivo – di “morto vivente” ha un che di generico che riguarda tante culture e tradizioni, come anche paure condivise, disperse in tutte le parti del globo. Il Ghul è un demone dell’Arabia pre-islamica che mostra proprio il volto mostruoso di un corpo rianimato ma senza volontà, portatore unicamente di morte. Allo stesso modo, il Preta è un altro proto-zombie legato alla religiosità buddista, che ancora una volta si fa portatore di un’inquietudine più molesta di quella suscitata dai fantasmi, ma sensibilmente meno profonda. La credenza dei fantasmi, infatti, mette in gioco le scelte etiche, morali e umane dei vivi, che infestano il mondo perché c’è qualcosa di irrisolto in esso. Non bisogna lasciarsi spaventare: se esiste una ragione perché sono qui allora vuol dire che una risoluzione – anche se tragica – da qualche parte esiste, che c’è qualcosa che col nostro agire possiamo fare per restaurare un sonno privo di inquietudine, di riscattare un giorno privo di nubi. I morti viventi, invece, sono qui senza un motivo, incanalando nella loro esistenza materiale semplicemente la più generica paura della morte.

Come accade a molte invenzioni postmoderne, anche se si tratta di “miti” costruiti quasi da zero, questi non nascono mai di punto in bianco, e il successo che riscuotono nell’immaginario collettivo lo dimostra. Qualcosa ha attecchito nel passato, e ha prodotto nel fango della storia – fatto di frammenti di immagini e visioni perdute – un figlio immondo e marcescente: uno zombie.

Fra il passato mitico delle tradizioni folkloristiche e la contemporaneità brulicante di zombie, tuttavia, esiste un terreno di mediazione, proprio quello che ha permesso a tante immagini sfuggenti di consolidarsi in un immaginario fatto di icone, stampe, tele, diorama e sculture che hanno fondato la cultura visuale di cui siamo figli. Quando la pittura realista dell’Ottocento ha iniziato a rappresentare la morte di un corpo umano in quanto tale, senza né retorica né illusioni di trascendenza, i primi soggetti borghesi dipinti sembravano degli zombie. Niente più nobili irrigiditi dal fasto di un vestiario ricercato, indorati dalla gloria di un’iconografia ricca di citazioni auliche, ma semplici corpi dispersi nel caos materiale dell’esistenza. Lo sguardo vacuo, opaco, che non presagisce nessun orizzonte di senso capace di resistere all’entropia che già riduce la carne in polvere. Molto prima, quando Holbein dipinse nel 1521 il celebre Cristo morto, nessuno poteva dubitare che quella salma non sarebbe mai tornata in vita, sconvolgendo lo stesso Dostoevskij, che raccontò ne L’idiota (1969) il potere del quadro di far vacillare la fede. E tuttavia, quella morte non è definitiva, in quanto il corpo pittorico del Cristo non deperisce come deperirebbe un corpo reale, non deperendo nemmeno nella nostra immaginazione, nella nostra memoria culturale. Il fascino di una vita al limbo ispira una oscura inquietudine, come anche una fascinazione vagamente macabra, ma non bisogna farsi spaventare da queste sensazioni. La pittura, la tradizione pittorica a cui faccio riferimento, filtra tutto ciò che vi è di ossessivo e perverso in noi: gli dona una forma, senza tuttavia disconoscerlo, accettandolo e trasformandolo in un qualcosa che risuona ancora dentro di noi. Così davanti alla morte di Cristo in Holbein noi non ci fermiamo davanti al fatto che il figlio di Dio non tornerà in vita, anche perché sta ancora lì quel corpo, nella sua tragica bellezza, esposto nella sala di un museo, citato in un romanzo, in una moltitudine di altri media. C’è qualcosa di drammatico che ci spinge a interrogarci, a immedesimarsi non solo nella sua vicenda, ma anche nei dilemmi della fede, o nei dilemmi esistenziali laici a cui tale perdita ci espone.

         Ma se questa è la versione più “nobile” del morto vivente, cosa dire invece della sua sopravvivenza nella cultura di massa?

 

Hans Holbein il giovane, corpo di Cristo morto nella tomba, 1521.

La banalità del male degli zombie

I morti viventi sopravvivono, nonostante tutto, per uccidere. Molte creature fantastiche e demoniache nella cultura mitica e popolare hanno una volontà cieca di distruzione, senza bisogno di dover tornare dalla morte per volerla imporre. Un esempio è il mostro marino che minaccia Andromeda nel mito greco, un essere che certamente non aveva una sua personalità, ma che rientra nel topos dei mostri che rapiscono le principesse, come accadrà coi draghi nel medioevo, compiendo una sorta di evoluzione. Gli zombie non solo non si evolvono ma non procreano nemmeno: sono sterili. L’unica cosa che possono fare è corrompere altre persone, per creare loro simili, quindi compiendo una sorta di clonazione, che neutralizza l’individualità del sé e dell’altro. Concettualmente, rappresentano la nemesi della creazione ma anche della distruzione: non c’è dramma ma solo banalità nella loro inesorabile e vacillante corsa verso lo sterminio.

A mio avviso, le declinazioni più riuscite degli zombie al cinema rientrano nell’ambito del demenziale. Orgoglio e Pregiudizio + Zombie (2016) di Burr Steers e I Morti Non Muoiono (2019) di Jim Jarmusch non sono bei film, ma raccontano l’unico uso possibile dello zombie nei prodotti di intrattenimento, quello volutamente ridicolo e parossistico. Oggi, invece, c’è una certa tendenza a “mitizzare” la figura dello zombie soprattutto nelle serie tv, che più dei film ormai condizionano l’immagine che noi abbiamo di certi topoi delle narrazioni visuali e testuali. The Walking Dead ha aperto la strada a questo fenomeno, ma ci sono produzioni di successo anche più recenti. La serie di The Last of Us riprende il videogioco omonimo, in cui il mondo prolifera di umani trasformati in zombie da un fungo. Il Trono di Spade presenta come nemico “finale” un esercito di zombie di ghiaccio che forse sono meno stupidi dei normali zombie, ma non basta un po’ di scaltrezza nel combattimento  a donare loro una personalità o un’identità.

In queste serie tv i nemici non sono solo gli zombie, in quanto si intrecciano aspetti legati anche alla crudeltà della natura umana e delle difficili scelte che comporta essere al mondo. E tuttavia, appare ben chiaro che queste creature orrifiche e fantastiche sono solo un pretesto per muovere l’azione. Sono un nemico politcally correct: tutti li odiano, basta fare leva su un minimo di buon senso o di pragmatismo per confrontarsi con essi o rifuggirli. Nella sfida contro di loro non c’è nessuna risoluzione capace di mostrare la complessità umana. Non si tratta di cercare una morale: laddove la tensione verso il nemico dovrebbe mettere in gioco dei valori, dei sentimenti, degli aspetti rimossi che l’esperienza eccezionale dello scontro fa emergere necessariamente, perché davanti al pericolo tutto ciò che tocca un’esistenza viene messo in discussione, qui non c’è che la vita o la morte, basta. Se vinci sei lo stesso di prima, se muori sei semplicemente morto, non c’è nulla di spirituale, ideologico o profondo che gli zombi possono strapparti.

Il vampiro, invece, può mostrarti il lato oscuro del desiderio, intrecciato con la pulsione di morte; il licantropo può mostrarti la possibile deriva bestiale e animalesca della natura umana; il fantasma può mostrarti che lasciare troppo a lungo “questioni in sospeso” può avere conseguenze devastanti non solo sulla propria vita, ma anche su quella degli altri, dei nostri cari, se non affrontiamo il passato prendendoci le nostre responsabilità. 

Ci si lamenta che nei prodotti di intrattenimento sta spopolando il modello di “nuovo cattivo Disney”, privato della sua malvagità intrinseca, gravato da traumi e sofferenze che parzialmente giustificano la sua condotta, ma eleggere come nemesi uno zombie è molto più degradante di così. Peggio della divisione “buoni contro cattivi” c’è solo la contrapposizione del grigio dell’umanità informe (fatta di buoni mezzi cattivi) e dei nemici grigi, cattivi ma senza genuina cattiveria.

Il punto centrale della questione è che, nei prodotti culturali, l’elemento fantastico dovrebbe essere funzionale al confronto con l’altro, dovrebbe mettere in scena il conflitto che non possiamo riconoscere in noi, e che per questo si incarna in una forma aliena. Laddove il ricorso all’elemento fantastico, invece, serve solo a delineare un nemico generico, che a volte si può anche comodamente mettere sullo sfondo per dare risalto al confronto fra gli uomini con le loro sfide etiche, politiche e sentimentali, allora vuol dire che è totalmente decorativo. A mio avviso, questa è una delle derive più pericolose di una tendenza pervasiva nella società dell’intrattenimento, ovvero quella di togliere l’immaginazione al servizio della crescita culturale, sociale e individuale, e relegarla nello spazio immobile della putrescenza, dove il passato ritorna solo per mettere paura, eliminando l’inquietudine come il mistero della morte, della sfida contro il limite, del confronto definitivo in cui potremmo scoprire che cosa significa essere vivi. In questo modo il passato non può che essere uno zombie, terra sterile da cui non nasce nulla, se non il rischio che gli orrori sepolti, che l’umanità crede di aver superato, riappaiano identici a prima ma più mostruosi che mai, con l’illusione che tanto questa volta potremmo guardarli comodamente dal nostro divano di casa.