Il circo in miniatura di Calder che attraversò l'Atlantico per conquistare Parigi e le Avanguardie


Ho sempre amato il circo… Così decisi di crearne uno, solo per divertirmi.

A. C

 

Nella prima metà del secolo scorso un circo comincia ad affacciarsi per le strade di Parigi col suo caravanserraglio di acrobati, leoni, clown, elefanti e trapezisti al seguito. Neppure mancano, a completare quest'organigramma circense, i mangiatori di spade, i canguri ammaestrati, i pericolosi lanciatori di coltelli e i maestri di cerimonie mentre le strade, le piazze e persino gli appartamenti si affollano d'animali e saltimbanchi.

Certo, il filoferrista talvolta precipita, il lanciatore di coltelli trafigge l'assistente e l'acrobata si ritrova gambe all'aria ma il francese non batte ciglio e ride come riderà di lì a qualche anno delle peripezie di Monsieur Hulot di Jacques Tati.

E nemmeno occorrono permessi, timbri, carte da presentare a rubicondi impiegati comunali per ergere il tendone del Cirque Calder, perché cinque valigie di cartone esauriscono l'intero inventario di uomini e fiere.

 

Banditore e fabbro di questo mondo di marionette è Alexander “Sandy” Calder, che al 22 di Rue Daguerre comincia a dar vita con spago, bottoni e fil di ferro a quel suo teatro ambulante che continuamente costruisce, smonta e rimonta come una Penelope di Montparnasse.

Intanto fuori dall’atelier anche il piccolo Doinel sognato da Truffaut corre e s’affretta per piantare un occhio nell’ogiva della serratura ed osservare lo chapiteau animarsi d’esili figurine. E giorno dopo giorno il circo si popola di nuovi personaggi, al clown ora si aggiunge un volto di sughero, al leone una criniera di stoffa arancione mentre i cavalli di legno e di cartone trottano veloci attorno l’arena.

Ed in questo universo a scala ridotta, di cui Sandy è al contempo demiurgo e puer aeternus, trova posto anche il suo avatara, Monsieur Loyal, il direttore del circo in alta uniforme, vestito con frac, tuba e papillon che tutto dirige e tutto ordina. Nel frattempo Calder suona, fischia, armeggia con le manovelle, i fili e gli ingranaggi del suo circo, seguito qualche passo più in là da quella menade danzante che è Louisa James, la moglie che, quando non è a capo dell'orchestra, un grammofono dalla musica esotica, accompagna lo spettacolo sulle note allegre e un poco francesi d'una fisarmonica.

Ma a questo punto la tournèe è già iniziata e ci troviamo forse già lontani da Parigi.

In America di certo, dove tutto aveva avuto inizio, appena un anno prima di giungere in Francia, quando, per conto della National Police Gazette, era stato invitato ad illustrare il circo Barnum&Bailey di New York.

Così, mentre per due settimane disegnerà funamboli ed elefanti, cammelli e trapezisti, osservando gli acrobati danzare su fili di stagno come ragni in paillettes e tutù, partorirà l’idea di un circo a misura di raganella.

Come uno dei suoi mobiles oscilla senza sosta tra le sponde dell’Atlantico.

Sulla quinta strada un affiches recita:

 

You are invited to a presentation

Calder’s Circus

Chez Hawes-Harden, 8 W. 56

 

Inaugura così, in un mercoledì di fine agosto del 1929, nell’appartamento di Haws-Harden, la sua data americana.

Fronte alla porta una targa accoglie i visitatori, “Paradìsus”, prontamente ammoniti sulla soglia da Sandy che veste il sorriso beffardo dei protagonisti di The Little Rascals (Simpatiche Canaglie): “Se non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli”. E chi a gambe incrociate come un pellerossa, chi disteso con i gomiti sul pavimento tutti osservano il piccolo tendone popolarsi di personaggi in filigrana e dietro Sandy guidare carponi il suo cowboy e il toro usciti fuori dal Wild West Show di Buffalo Bill.

Qualcuno delle file più dietro, rincantucciato tra il trumeau e il settemino grida a Fanni, la ballerina di carta e fil di ferro come farebbe il re di Babilonia a Salomè: Balla, balla per me Fanni.

E nell’intervallo, prima dei clown e dopo i leoni marini vengono serviti coni di popcorn e noccioline, mentre Louisa conduce i bambini, che adesso si rincorrono per la stanza, fin dietro lo chapiteau dove il leone riposa nella sua colorata gabbia di spago e di cartone.

 

Intanto a Parigi le avanguardie bussano alla sua porta: surrealisti, dada, tardo futuristi, tutti vogliono assistere allo spettacolo messo su dagli acrobati alti sei pollici o poco meno del suo circo lillipuziano. "Dov'è questo Gulliver americano?" esclamano i patafisici in giacca e cravatta, mentre Matisse, Cocteau, Duchamp, Lèger e Mirò s'addentrano in fila indiana nel suo studio.

"Lo roi du fil de fer" grida, alzandosi in piedi, dal fondo della stanza, Mondrian.

E Calder, smesse per un attimo le pinze, il martello e i forbicioni da lattoniere, comincia a far danzare i suoi trapezisti che balzano leggeri al cielo e come l’esilissimo omino blu di Folon paiono dire: E io un giorno volerò.

Dagli anni ‘70 il fiero leone e gli incerti equilibristi riposano nelle sale del Whitney Museum di New York, dove acrobati ed animali sono affidati alle cure di saggi restauratori come talune amazzoniche tribù protette nel cuore della foresta brasiliana. E forse per una simpatetica magia con quest’ultimi, la cui natura ci sfugge, capita talvolta, se si accosta l’orecchio, di ascoltare la voce flebile ma sicura di Monsieur Loyal esclamare: E se amate il Circo in grande, forse amerete il mio.

 


 Postilla al Cirque Calder:

 La vita è un fanciullo che gioca[1]

 

Il Cirque Calder non è solo il divertissement di un americano in viaggio a Parigi ma il sogno di un Cupido incarnato in un corpo di Gulliver. Quell’eros che può manifestarsi nella sua duplice natura, materica o spirituale, di pro-creazione e creazione. Ma l’eros, questo dèmone che abita Calder, si rivela pienamente nella sua forma di puer aeternus, come forza riconciliatrice con l’infanzia e l’inconscio.

Calder “renatus in novam infantiam” diventa Sandy e col suo circo di carta, spago e fil di ferro ci invita a ritornare bambini per imparare a giocare con la realtà e a pensare ciò che non esiste. È al contempo faber e ludens, per dirla con Argan, quando mette in scena il gioco serio dell’arte, che è anche quello dei bambini quando giostrano, corrono, saltano. Anche in loro il gioco risponde a delle regole, a dei canoni, a delle logiche, siano pure esse quelle del sogno. L’astratto prende forma. Ed allora il bambino, come l’artista, crea, inventa, sperimenta su di sé e gli altri il caleidoscopio delle sue fantasie.

Su queste direttrici si muovono Calder, Munari, Tinguely e oltre a loro le avanguardie, di cui Freud e Breton erano stati i primi messi, cioè sulle forze dell’inconscio e dell’immaginazione, delle quali l’infanzia è forse la prima culla mercuriale.

È una realtà ancora liquida. Quella dell’infanzia e dell’arte, popolata da sogni e da fantasie patagoniche, ma l’unica dove un Gulliver può addirittura mettere in piedi un circo per lillipuziani.








[1]Eraclito (Colli 14[A 18])