Bernardine Evaristo, “Ragazza, donna, altro”
“Corale” è la parola che ho spesso letto usata per descrivere il libro qui sotto osservazione.
Se fossimo in musica, un pezzo corale sarebbe un componimento in cui le voci che formano un registro si amalgamano talmente da non distinguere più il singolo cantante (se accade il contrario, in sala da concerto, significa che il coro non è proprio un granché…). Si sente Il Coro, un personaggio a sé nelle opere: canta il soprano, canta il tenore, canta il coro.
Quello di Evaristo è uno strano coro, però. Le voci sono singole. Ne emerge una alla volta, una a capitolo, concentrandosi sul fulcro della propria esistenza, salvo sguinzagliare un piccolo filo di fumo che, ecco!, viene afferrato - o lasciato, a seconda di dove si inizia a guardare - dalla voce adiacente, e così via, inanellando un canto che ha poco del coro e più del saggio di scuola.
Le voci sono innumerevoli, dodici soliste più un paio di duetti-trii finali, non ricordo con precisione. Ed ecco la sintesi: non ricordo con precisione.
Allora, qui mi fermo, perché questo è un punto importante. Non sono restio a chiamare addirittura capolavori libri che raccontano di infiniti personaggi (i russi, i russi - gli americani no -, i cent’anni di solitudine dove si chiamano tutti con lo stesso nome o la ricerca del tempo perduto, e anche del filo, chi diamine era Norpois?). Ma le intermittenze della memoria di cui ho fatto esperienza con Evaristo sono di tipo diverso, sono un difetto non del lettore ma dell’autore e ne vanno ricercate le cause: ne ho trovate un paio conclamate.
La prima è la mole del libro: è molto lungo e, appunto, le voci prese in considerazione - per quanto lodevolmente illustranti varie sfaccettature dell’essere donna, dell’essere di pelle scura, con molte varianti dell’essere queer - risultano troppe. Alla fine del libro il duetto (o trio, ahimè, non ricordo!) coinvolge nomi di cui si è certamente letto ma che io, onestamente, a quel punto avevo già dimenticato.
La volontà di creare quasi un’antologia inclusiva della rappresentazione della donna - con il perimetro entro il quale muoversi chiuso esclusivamente dal colore della pelle - segue un filone di recente apparizione, soprattutto nel mondo delle serie a mo’ di Netflix. Il rischio è quello di avere di fronte più una collezione entomologica piuttosto che un coro di personaggi, giacché le varie donne di cui qui si parla mi sembrano paradossalmente inspillate su un pannello bianco, con le ali distese e le elitre in bella vista, col nome scritto sopra, ormai irrigidite nella loro condizione di “esemplare”. Non c’è una vera massa armonica corale che fa di molte una sola cosa, né la scrittura di Evaristo è di tale qualità da rendere indelebile persino il più banale fra i racconti. Ogni capitolo è la semplice narrazione, senza infamia e senza lode, della vita di una donna di colore.
Ecco, adesso, la seconda causa della smemoratezza: per quanto di ogni personaggio si diano esaustive narrazioni della vita vissuta e persino dei sentimenti provati, non ci si trova ad una tale profondità di introspezione da stimolare la memoria a ricordarsi del tale coleottero iridescente o di quella cavalletta dalle ali scarlatte. Il tutto si mescola in una generica idea di “insetto”: ci sarà stato quello gigantesco con le corna, quello piccolo e rosso, quello lungo lungo, secco secco, ma chissà poi chi era chi, come si chiamava l’uno, come l’altro. Chi ha fatto cosa?
E come di fronte alla grande maggioranza di queste sterminate collezioni, benché sia vivo l’interesse e la meraviglia di chi osserva gli animali incredibili lì crudelmente confitti, se l’osservatore non è un esperto si glissa velocemente sulle teche di questa mostra caleidoscopica trattenendone poco o nulla nella memoria.
Se ne può dedurre che la vita delle persone, eccetto quelle eccezionali (di cui comunque Evaristo non parla, fermandosi a trattare esemplari “normali”), è fondamentalmente banale.
A togliere la cappa plumbea della banalità deve pensarci la letteratura: la scelta delle parole, il tono, la capacità di collegare una psicologia con una concatenazione episodica, l’ardire inventivo che mescola quanto conosciuto come vero e lo ripropone in forma variata, perché la letteratura ha necessità diverse da quelle della vita, e anche maggiori libertà. E non sto dicendo che si deve prendere una vita particolarmente banale e librarla con le parole in cieli rarefatti, no, ma che si possono sfruttare le infinite possibilità della letteratura per mostrare che anche una vita banale, se ben raccontata, può essere materia di capolavoro.
Ma qual è il motivo per cui Evaristo ha scelto questa narrazione episodica? Secondo me (se ignoro la malizia che mi fa pensare che scrivere brevi episodi sia più facile rispetto a metter su un romanzo con un solo personaggio) proprio il voler toccare una così grande variazione dell’essere da dimenticarsi che non è necessario mostrarne ogni singola sfaccettatura per risultare inclusivi. Evaristo dà in effetti una quantità di informazioni che definirei esclusivamente “da trama” sulla vita di queste donne ma in realtà, in definitiva, produce personaggi un po’ piatti, che si muovono in un ambiente estremamente circoscritto, in scenette, e che somigliano più a una sfilata di maschere tipologiche rispetto al coro che tanto si declama.
Il difetto è comune a molti scrittori contemporanei che ho letto recentemente, i quali compongono interminabili fiumi di parole e che sono un po’ goffi nello scegliere cosa dire, di tutte le idee creative che hanno in testa, e che poi rimangono a nuotare perlopiù sulla superficie. A me piace essere portato in profondità.
È recente la mania del mostrare, sforzandosi di non scontentare nessuno, perciò ci si preoccupa spesso di illustrare quante più varianti possibili facendoci leggere un’infinità di coleotteri che sono tutti simili, a parte qualche variazione quasi impercettibile nella geometria dei pois sul dorso.
Allora, il fatto è che mai si può accontentare tutti: eccomi qui Evaristo, non sono contento!
Quindi, prendendo atto che sì, è giusto dare voce a certi personaggi che forse non sono mai stati rappresentati nelle arti della scrittura, forse sarebbe più corretto sceglierne uno, uno solo - e pazienza che tutti gli altri siano scartati -, cercando di dargli dignità di personaggio plastico, tridimensionale non solo nel racconto della vita (basta con queste biografie piene di avvenimenti alla fin fine insignificanti e svuotate da ogni implicazione emotiva!), e di costruirlo così bene da rimanere indelebile nella memoria di tutti, pazienza che non rappresenti pedissequamente ogni tipologia della infinita mostra entomologica umana.
Un’ultima cosa. Evaristo ha scelto di non usare i punti. Le frasi sono semplici e finiscono senza alcun segno grafico, evitando anche le maiuscole dopo l’a capo.
Per quanto questa scelta non crei problemi nella lettura, proprio a causa della semplicità di fraseggio appena citata, non vedo dove sia l’elemento di rilievo che ha portato l’autrice ad usare un simile artificio.
Il punto è platealmente posto alla fine di ogni singolo paragrafo nei singoli capitoli dedicati a ciascuna donna. Qual è l’utilità di un simile ritrovato, e se non è utile, se non crea un effetto specifico, perché utilizzarlo? Mi pare, più che altro, una firma, un divertissement che fa dire «Ah! Sì! Evaristo, quella che non mette i punti!» e rendersi subito riconoscibili.
Botero, quello che fa la gente grassa; Koons, quello che fa i palloncini lucidi; Evaristo, quella che non mette i punti.