Associazione culturale Cola dell'Amatrice, dove risuonano canti di pastori e transumanti
Camminando nel rione Parione, in quel rettifilo del Governo Vecchio che congiunge Piazza dell’Orologio a piazza di Pasquino, sono molte le vetrine che catturano l’attenzione del camminatore curioso. Una in particolare non può lasciare indifferenti: l’insegna porta il nome di una grande pittore del Cinquecento (quel Cola dell’Amatrice dagli echi raffaelleschi), mentre le pareti interne sono rivestite completamente di quadri.
Varcata la soglia si ha l’impressione di entrare in un mondo arcadico, fatto di pastori e sensali, di greggi e armenti. Un mondo atavico che ci pare di conoscere sottopelle, senza averne avuto esperienza. Sparsi ovunque, oggetti appartenenti alla civiltà pastorale come strumenti musicali, di lavoro e vecchi giochi, si animano e prendono vita nei dipinti.
Conosciamo Mario Ciaralli, proprietario della bottega e fondatore e presidente dell’Associazione culturale Cola dell’Amatrice, che ci accoglie calorosamente in un freddo e piovoso pomeriggio invernale.
Qual è la storia di questo posto?
Questa bottega nasce come laboratorio di restauro. Io sono un doratore, metto la foglia d’oro sulle cornici, sui tabernacoli e su questo tipo di oggetti antichi. Negli anni, poi, è diventato anche un negozio, una galleria d’arte. Mi sono appassionato alla pittura dell’Ottocento, soprattutto quello romano, ai XXV della Campagna romana: Coleman, Sartorio, Morani e tanti altri. Diciamo che mi sono divertito per vent’anni, perché si andava a Parigi e a Londra alle aste a comprare cornici, dipinti e oggetti vari. Allora c’era un grande interesse da parte di collezionisti, arredatori e architetti. Ho iniziato così a comprarli per rivenderli, e alcuni me li tenevo. Quelli che vedi qui sono quelli che mi sono rimasti, e che ho incorniciato e messo alle pareti.
Quanto è importante per un quadro la cornice?
La cornice è fondamentale, pensa al Tondo Doni di Michelangelo, dove la cornice è parte dell’opera ed è un capolavoro in sé. Io mi divertivo quando acquistavo un quadro a trovargli la cornice adeguata, le costruivo. Qui ci sono alcune cornici che ho realizzato io.
Come si fa una cornice?
Si compra la sagoma in legno grezza, si assembla, e poi ci si passano sopra tre mani di gesso liquido (gesso di Bologna e colla di coniglio), si scartavetra e poi sopra si fanno i calchi. Questi calchi sono presi con la plastilina da un’altra cornice.
Oggi fai ancora questi lavori?
Sì, faccio ancora qualcosa, piccoli restauri, che poi mi ci diverto pure. Ma il lavoro è finito. Il lavoro artigianale, l’antiquariato e il restauro hanno subito un danno notevole, già dagli inizi dei Duemila.
Nel 2003 infatti decisi di fondare una rivista: Fidelis Amatrix (un bimestrale di circa settanta pagine). I temi della rivista erano la storia del territorio, le tradizioni popolari e l’arte locale. Era una rivista totalmente indipendente, non ho mai preso soldi da nessuno e questo mi ha permesso sempre di essere libero. Quando c’era da dire qualcosa di critico non ci siamo mai tirati indietro; questo non è piaciuto alle varie amministrazioni, che infatti mi hanno tagliato fuori spesso dall’organizzazione di eventi culturali.
Perché questo legame con Amatrice? Da dove vieni?
Vengo da un piccolo paesino dell’amatriciano, una frazione di Amatrice che si chiama Cornillo Nuovo. Nel 1963 sono uno dei tanti che si è trasferito dai paesi, faccio parte del grande spopolamento delle montagne. Ho affittato casa qui a via del Governo Vecchio e ci sono rimasto dal ’63.
È cambiato il quartiere negli anni?
È stravolto! Allora qui ci conoscevamo tutti, giocavamo a pallone in strada. Nel 1963, qui, era un paese, soprattutto di alto sabini e di amatriciani. C’è un rapporto stretto tra Amatrice e Roma, grazie alla transumanza; qui vicino c’è una via che ricorda questa forte presenza, si chiama vicolo degli amatriciani. Fino agli anni Settanta questo legame è stato forte e vivo, ma poi è finita la pastorizia e questo ciclo si è spezzato.
Ma questo legame resiste in te, tramite i tuoi interessi e il tuo lavoro.
Sì, mi sono sempre interessato alla ricerca storica, alle tradizioni e alla musica popolare, la poesia a braccio, alle ciaramelle.
Cosa sono le ciaramelle?
Sono degli strumenti musicali a fiato, simili ad una zampogna. La ciaramella è unica, fatta con due canne sonanti al quale si aggiunge la sacca, l’otre.
I quadri che vedo qua dentro sono tutti con soggetti bucolici.
Mi interessano in particolare questi soggetti pastorali e agricoli. Quando ho iniziato a frequentare gli antiquari e ad interessarmi a questo tipo di pittura, è stato come se all’improvviso avessi rivisto in questi quadri il mestiere di mio padre e dei miei nonni, che erano pastori.
Il tragico terremoto di Amatrice del 2016 ha distrutto una buona parte del patrimonio storico-artistico. Sei riuscito a mettere mano a quelle pietre ferite per risanarle?
Ho realizzato piccoli restauri di oggetti minori, statue in gesso e cose del genere, ma molto poco. Lì c’è stata una negligenza enorme. Capisco che ci sono stati molti morti, feriti e tutto il resto, ma la salvaguardia dell’architettura, dell’arte e del nostro patrimonio è il futuro. Se non rimetti in piedi una chiesa crollata, un simbolo come una torre civica, ma da dove riparti? Questo purtroppo è mancato: da parte delle istituzioni, del Governo, del MiBACT, e anche della cittadinanza. Avremmo dovuto spingere noi, cittadini, per chiedere almeno la messa in sicurezza del patrimonio storico-artistico. Invece si è lasciato che le varie scosse lasciassero crollare le chiese.
I dipinti che vedi qua dentro li ho recuperati dalle macerie. Stavano dentro la sede dell’Associazione culturale che avevo lungo il corso su ad Amatrice, dove i piani superiori sono crollati. Non riuscivo a vedere se avevo perso tutto, tutti i miei dipinti. Sono stati venti giorni da incubo, con la paura di aver perso ogni cosa. Per fortuna i vigli del fuoco sono riusciti a entrare dal retro e a recuperare i quadri che, tolto qualche graffio, erano miracolosamente illesi. Ho perso giusto qualche libro e qualche altro oggetto, ma una percentuale minima. Poi ho provato a contattare il MiBACT perché volevamo andare a recuperare degli oggetti antichi per restaurarli e consegnarli poi al Ministero e alla Diocesi, ma non ho avuto risposta. In qualche paesino ho recuperato dei tabernacoli e altre cose minori che, dopo averle restaurate, ho consegnato alle varie parrocchie. Mi sarebbe piaciuto che, come dopo l’alluvione di Firenze, accorressero aiuti da tutta Italia.
Gli angeli del fango!
Sì, avrei voluto gli angeli delle macerie, ma non è stato così. si poteva fare molto di più.
Un signore entra per guardare meglio un quadro. È ammaliato, lo osserva con attenzione. Poi chiede: “scusi a quanto sta?”.
“Non è in vendita”, replica Mario.
Effettivamente è proprio un bel dipinto!
Questo quadro si intitola “I canti della trincea”. È datato 1920 ed è stato dipinto da Alessandro Morani. Ricorda la Prima Guerra Mondiale appena terminata, quelli che si vedono sono i monti di Arsoli. Le donne sono vedove di guerra, quella giovane in primo piano è la figlia del pittore, si chiamava Paolina, ho conosciuto le sue nipoti insieme a tutta la famiglia del pittore. Stanno cantando a terzina o a quartina, e l’altro suona. È una tradizione che ancora c’è oggi in tutto l’Alto Lazio, in Abruzzo, nei Castelli Romani.
Quali erano le tematiche del canto?
In questo caso la guerra, ma le tematiche del canto possono essere varie, sempre a contrasto però. Ad esempio: Bartali e Coppi, il sole e la luna, il pastore e l’agricoltore. Virginio di Carmine è stato uno dei grandi poeti a braccio (a braccio nel senso che improvvisano tutto), è morto qualche anno fa, è stata una grande perdita. Mi scriveva tantissime lettere, e quando scriveva sembrava un bambino di prima elementare, mentre quando declamava l’ottava aveva dei termini colti perché lui leggeva l’Ariosto, il Tasso, Dante. Era un vero poeta pastore.
Ci sono delle testimonianze di questi canti?
Sì, con l’Associazione abbiamo fatto un cd e un dvd. Io andavo in giro con il registratore già dagli anni Settanta e Ottanta e registravo molte gare poetiche.
Oggi i giovani continuano questa tradizione?
Sì ci sono giovani che lo fanno, sia poeti che “ciaramellari”. C’è una grande differenza però, i giovani non leggono più i classici e quindi la poesia è diversa. Quando formano l’ottava oggi non è più come quella di Virginio. Ma le gare poetiche si organizzano ancora, ad esempio a Borbona nel reatino si fa un bel festival ogni estate, e anche a Bacugno.
Veniamo invece alla transumanza che hai menzionato prima, quanto è stata importante questa tradizione?
La transumanza in Italia ha avuto una grande importanza. Oggi noi abbiamo dei vestiti sintetici principalmente, ma una volta ti coprivi dal freddo con la lana. La transumanza c’è sempre stata, soprattutto quella abruzzese. In quelle montagne dai mille metri in su non potendo praticare l’agricoltura si praticava la pastorizia, e questa aveva bisogno di emigrare d’inverno. La via era o il Tavoliere delle Puglie o la campagna romana. Il re di Napoli a metà Quattrocento capì che poteva essere un grande vantaggio economico regolamentare per bene la transumanza, e istituì la dogana di Foggia (Regia dogana della mena delle pecore di Puglia ndr). Tutte le pecore dell’Abruzzo dovevano andare in transumanza nel Tavoliere. Tutto questo è andato avanti per secoli. A fine Ottocento con l’incremento demografico vennero a mancare i terreni per l’agricoltura e si pensò che il Tavoliere potesse essere un bacino importante. Anche la lana entrò in crisi perché iniziò a venire quella dell’America latina e dell’Australia a prezzo migliore. Piano piano così la transumanza si è avviata verso un lento declino.
Ma oggi esiste ancora, ed è stata dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO nel 2019.
Sì esiste ma in minima parte. Su nell’amatriciano ci sono non più di duemila pecore, forse nemmeno. Una volta erano numeri infinitamente più alti: nel 1896 Amatrice aveva 47.000 pecore e nel 1935 ancora 37.000. Pensa che Amatrice nel Quattrocento rivaleggiava con L’Aquila per quanto era potente, e lo doveva esclusivamente alla pastorizia. C’è un documento della Dogana di Foggia del 1478 dove si dice che passano ben 78.000 pecore da Amatrice.
Incredibile! C’erano più pecore che persone.
Poi c’è stato un altro grande problema, quello dello spopolamento montano. La gente emigrava, lasciava le montagne per andare a Roma o all’estero. Così una civiltà millenaria piano piano è finita. L’Associazione Laga Insieme, diretta da Armando Nanni, ha avuto l’idea di proporre all’amministrazione di partecipare al progetto sulla transumanza dell’Unesco. Abbiamo fatto un convegno, una manifestazione e poi è uscito anche un libro. Il mio sogno è di fare un museo della transumanza e delle tradizioni contadine, dove fare convegni, incontri ed eventi culturali, che sia un luogo vivo e non solo un ricordo folclorico.
C’è un futuro per queste tradizioni e per l’artigianato?
Questi ultimi vent’anni sono stati una catastrofe. Prima di questo negozio avevo un laboratorio e sotto da me c’era un ebanista bravissimo che restaurava mobili del Settecento con una minuzia incredibile! Faceva dei dettagli minuscoli, le ombre con la sabbia, era un vero artista. Adesso queste cose non interessano più a nessuno, stanno addirittura finendo i restauratori di queste arti minori. Se vai ad un’asta trovi dei mobili antichi bellissimi che non costano niente perché non li compra quasi più nessuno. Ormai interessano solo ad una piccolissima nicchia, c’è stata un’involuzione culturale spaventosa per queste cose.
Capita che qualcuno entri incuriosito come il signore prima col quadro?
Molto poco, soprattutto rispetto al passato. Una volta qui era un via vai, quando qualcuno si avvicinava alla vetrina speravo che non entrasse perché magari ero stanco, oggi è il contrario.
Mario mette su un disco con le musiche dei poeti pastori. La voce di Virginio, “gigante buono e fragile poeta” risuona nel negozio, adagiandosi calda sulle note delle ciaramelle. Parliamo ancora a lungo, ci mostra i quadri appesi alle pareti, narrandoci le storie che si celano dietro quelle pennellate talvolta filamentose e talaltra minute e precise.
Usciti da qui si ha la sensazione di aver viaggiato, nel tempo e nello spazio, di aver transumato coi pastori e le greggi, e tornati a casa si sente il desiderio di riprendere in mano il Virgilio delle Bucoliche o il Tasso, magari preparando a fuoco lento un’acquacotta in una terrina.