Il cinema LGBTQ+ che non ti aspetti. 7 film di grandi registi da vedere

Cult, Teen Movie, Blockbuster, film d’essai, l’immaginario Queer è diventato sempre più pervasivo e diffuso nel mondo del cinema. Ma oltre il dilagare di questa moda (perché spesso si tratta solo di produzioni ruffiane che strizzano l’occhio al trend del momento), esiste un vastissimo repertorio di film d’autore del panorama internazionale, fatti da registi che hanno trattato le stesse tematiche in maniera audace e colta. Da personaggi politicamente schierati (Jarman, Dolan, Matsumoto…) ad altri che si cimentano sulle medesime questioni realizzando opere oggi quasi sconsociute (penso al caso eclatante di Mr butterfly di Cronenberg, titolo assolutamente di “nicchia”), quello che emerge è un vasto panorama che mostra la varietà di risposte che sono state date attorno ai temi dell’identità e del desiderio, oltre i canoni e le etichette.

Qui una selezione di cinque titoli di grandi cineasti che hanno dato alla luce delle visioni indimenticabili.

Wittgenstein (1993), di Derek Jarman.

Film atipico, come è atipica l’intera filmografia del regista. Si tratta di un film-pièce teatrale, dal carattere farsesco e ironico, creativo e sfarzoso, che tratta la biografia del filosofo austriaco. Tutto è narrato in maniera assolutamente originale, attraverso invenzioni stilistiche e concettuali che rimandano al cinema d’avanguardia (anche per il bassisimo costo di produzione e la brevissima durata delle riprese, di appena 12 giorni) ma anche al teatro sperimentale, da Brecht a Ionesco.

All’inizio del film vediamo l’arrivo di Wittgenstain a Londra, un uomo inquieto carico di traumi e sofferenze, che vanno dalla partecipazione alla Grande Guerra all’aver conosciuto Hitler durante gli anni scolastici. In questo “teatro” che è la sua vita, tramite rapporti intellettuali e sentimentali, esplora se stesso e prende posizioni estreme sulla filosofia, arrivando a rinnegarla. Quello che esce fuori è un tripudio di artifici e colori, in cui Jarman si unisce a Wittgenstein nell’abbattere muri e barriere in nome di una ricerca spassionata, realizzando un inno al sapere e alla vita che trabocca di gioia e vitalità.

Lawrence Anyways (2012), di Xavier Dolan

Forse il film più celebere della lista. Dolan non ha bisogno di presentazioni, e tantomeno questo film. Più istrionico che mai, in questa epopea (lunghissima) di un uomo che riscopre la propria identità, Dolan mette tantissimo di se stesso, oltre la sua faccia in un veloce cameo.

Lawrance Alia è un professore di letteratura felicemente sposato che, scoprendosi donna e mettendo in discussione il proprio corpo e della propria immagine, stravolge tutti gli equilibri della propria vita. L’esperienza di questa trasformazione diventa un modo per riscrivere totalmente tali dinamiche, e la complessità registica con cui tutto ciò è trattato non è mai sbrigativa o banale. Lawrance (nonostante tutto) è sempre lui, nella sua diversità, ma Dolan in questo film ha una marcia in più, che gli permette di realizzare una pellicola lirica e ispirata, piena di dramma e di humor.


 Big Bang Love Juvenile A (2006), di Takashi Miike.

Jun Aryoshi, un giovane cameriere di un gay bar, uccide brutalmente un molestatore attratto della sua efebica bellezza, finendo in prigione. Qui si trova catapultato in un inferno labirintico, un luogo senza spazio né tempo, regno di un cupo e psichedelico avvicendarsi di luci e ombre espressioniste, dove incontra un altro carcerato noto per aver stuprato e ucciso la moglie del direttore del penitenziario. Qui nasce un’ambigua relazione che presto assume connotati metafisici: i dialoghi diventano sempre più astratti e monumentali, mentre la trama si infittisce di misteri con un registro che va dal noir alla tragedia fino alla farsa surrealista. Se Kafka avesse girato un film sarebbe stato così: muto nella fissità di immagini enigmatiche, eppure delirante e ispirato, danzante e dionisiaco nella furia di momenti di puro genio visionario. Un dramma avvolto in un silenzio carcerario appunto, esasperato, fatto di apocalissi interiori, che spinge i due protagonisti in un viaggio indietro nella storia, fino all’inizio dei tempi, in un universo alieno con tanto di piramidi Maya e una parte animata che ricorda lo stile dei Gorillaz.


Funerl Parade of Roses (1969), di Toshio Matsumato.

La Nouvelle Vague in Giappone ha il suo monumento: questo film è una vera pietra miliare del cinema d’autore internazionale. La trama parte dall’intento intellettualistico e ironico di attualizzare e ri-mediare la tragedia di Edipo, ambientandola nella Tokyo delle rivolte studentesche del 68, all’interno degli ambienti di una comunità trans. Edipo qui è un giovane travestito che si prostituisce e che finisce nella spirale maledetta di morte ed espiazione del mito greco, finendo per fare l’amore con il padre e uccidere la madre, invertendo così i ruoli della narrazione originaria. Ma non si tratta dell’unica operazione di spostamento e destabilizzazione: tutto il film è retto da uno sperimentalismo formale che lo rende di una modernità bruciante. Battibecchi “disegnati” come fumetti, loop lisergici all’interno di una galleria d’arte contemporanea dove trionfano superalcolici e acidi, scene da divertissement demenziale di risse fra baby gang, inchieste documentarie sulla vita dei giovani studenti. Tutto magicamente fuso grazie ad una regia che ci introduce in questo universo caleidoscopico dove dilemmi arcaici si fondono ai problemi del presente. Allora la mutilazione oculare diventa sia quella di un uomo che rifiutando il visibile aspira all’invisibile, sia quella di un individuo di oggi che bombardato di immagini rifiuta questa proliferazione infinita, “squarciando” questo flusso, ricercando antropologicamente una ritualità perduta capace di riportare l’umanità al contatto con le sue origini.

 

Gli amori di Astrea e Céladon (2007), di Èric Rohmer.

Al termine della sua carriera il regista francese realizza una favola arcadica, lontana sia dal registro “dialogato” dei suoi film di attualità, sia da quello serio e rigoroso dei suoi film storici. Qui tutto è sfumato, leggiadro, come la storia dei due amanti protagonisti, che vive di vicissitudini che stanno fra la poesia e il sogno. In una Gallia romana, abitata da creature del folklore classico, la coppia non può congiungersi a causa di divergenze fra le rispettive famiglie, e quindi escogitano come Romeo e Giulietta un escamotage che creerà più complicazioni che altro. Questo viaggio rocambolesco porterà a scoprire in lui il suo lato femminile, grazie a un travestimento che vira al travestitismo - che lo renderà (ir)riconoscibile agli occhi dell’amata -, e in lei le variazioni di un amore etereo, libero come l’aria. Tutto è leggero come un soffio: basta poco a dimenticare nel dettaglio la visione, che nella sua levità scivola via quasi impercettibilmente. Quel che resta indelebile è la sensazione di bellezza e beatitudine che solo un regista tanto talentuoso poteva tradurre in immagine, sfuggendo al prevedibile romanticismo.

 

Mr Butterfly (1993), di David Cronenberg.

Un Cronenberg inconsueto, stranamente realistico e sentimentale, in un film che non si risparmia in termini di crudeltà. Filmando la storia di Mata Hari (a sua volta mediata dal dramma teatrale omonimo di David Henry Hwang), il regista mostra un diplomatico francese cedere alla fascinazione di una cantante dell’opera di Pechino, che non solo si rivelerà essere un uomo, ma anche una spia del governo comunista. Sedotto dal carattere sottomesso della presunta “lei”, conosciuta nell’atto di interpretare la Madama Butterfly di Puccini (opera che mostra un immaginario erotico ed esotico vagamente razzista) finirà per bruciare la propria carriera, e la propria vita, nell’inseguire il chimerico sogno di una donna ideale che porterà lui stesso alla scoperta del potere metamorfico dell’amore, che lo stragolverà nel profondo.

Oltre i ruoli e i generi, insomma, ma non oltre la storia. Il dramma, infatti, si consuma all’interno di uno scenario politico altrettanto incandescente, dove le tensioni fra Oriente e Occidente, comunismo e capitalismo, mostreranno i loro effetti più dirompenti sulle grandi vittime di questo scontro: i sentimenti e la cultura nella loro dimensione più autentica, emancipati da questioni ideologiche e ruoli sociali imposti.

 

Happy Togheter (1997), di Wong Kar Wai.

Uno dei più grandi registi viventi, riportato in auge grazie a una sapiente campagna di proiezioni che ha visto i cinema italiani, all’alba della loro riapertura, mostrare nuovamente su grande schermo le sue opere più rappresentative. Happy Togheter è un film anomalo per due motivi, precisamente per l’assenza di due elementi centrali nella cinematografia del regista: la donna e la sua città, Hong Kong. L’infelice storia d’amore di due uomini è trattata, tuttavia, nel consueto modo evocativo e intimistico. Ellissi narrative si accompagnano a una fotografia sporca e impressionista, quasi materica della resa sensiva e carnale delle immagini catturate da Christopher Doyle. Quello compiuto dai due protagonisti è un viaggio, sia esteriore che interiore. Ma non si tratta di un classico road movie: questa esplorazione dell’Argentina, fino al suo punto più remoto, si accompagna all’abitare luoghi metaforici come desolate stanze dell’abbandono, sondando la solitudine delle strade assolate di giorno e dei locali notturni la sera, persi in una terra straniera.

Ma Happy Togheter è anche e soprattutto un film allegorico, denso di significati politici. Si avvertono già i funesti presagi per Hong Kong di una futura riunificazione con la Cina, tema molto caro e frequentato dal regista. Riguardando oggi questa pellicola si ha come l’impressione di un equilibrio sospeso, destinato a deflagrare, un equilibrio rappresentato dalla difficoltà di comunicare dei due protagonisti, che parlano due linguaggi diversi come le due anime della città. Nonostante le difficoltà relazionali, insieme storiche e personali, Wong Kar Wai riesce a farci sentire in questa pellicola il bisogno di autenticità all’interno di un amore sterile e asettico, ma non per questo meno poetico.