Thomas Pynchon - L'incanto del lotto 49

 
 

Titolo originale: The Crying of Lot 49

Traduzione a cura di: Massimo Bocchiola

Casa editrice: Einaudi

Edizione: 2005

Pagine: 174

Un giorno del 2005 io, con i miei diciannove anni, le Converse sfatte e molte certezze tutte sbagliate, entro alla Feltrinelli senza grosse aspettative o uno straccio d'idea di ciò che voglio (condizione, questa, che è tanto caposaldo della mia filosofia di vita quanto il miglior approccio quando ti convinci che ciò che ti serve in quel momento è un libro).

Insomma, sono lì che mi guardo intorno, vago, accarezzo cani, schivo bambini e per poco non cado addosso ad un tizio che legge beatamente seduto in poltrona; guardo le copertine senza che niente mi convinca ad andare oltre, a prendere il libro e leggerne, se non l'incipit, almeno la trama. 

Quando il mio vagare comincia ad assumere i connotati dell'inutilità, appare davanti a me "L'incanto del lotto 49"; lo rigiro fra le mani e inizio a sfogliarlo. 

L'autore è Thomas Pynchon e mi ricordo all'istante di aver letto da qualche parte che lo scrittore in oggetto si rifiutava di apparire in pubblico. O forse ho solo visto la puntata dei Simpson in cui c'era lui con il volto coperto da un sacchetto di carta con due fori per gli occhi e un punto interrogativo disegnato sopra; chi può dirlo? I miei riferimenti culturali oscillano di continuo, sapete, per quella solita storia di highbrow, lowbrow e tutto quel che segue.

Me ne sto in piedi davanti allo scaffale e più leggo di questa Oedipa, una casalinga californiana che viene nominata esecutrice testamentaria del suo ex e che, per capire quale sia la verità, intraprende in viaggio psichedelico in cui si ritrova a dover avere a che fare con il sistema postale alternativo WASTE, che ha come simbolo un corno postale silenziato, accompagnata da una serie di personaggi strambi, molto ma molto strambi, più mi dico che farei bene a portarmi a casa quel libretto.

Beh, avevo ragione. Stranamente, aggiungerei, ché io di solito sono come Alice e non so mai seguire gli ottimi consigli che mi do.

Il viaggio di Oedipa Maas termina in una casa d'aste, senza sapere bene come ci sia finita, ma con la certezza che solo la chiamata del lotto 49 potrà svelare il mistero. Pynchon però, da genio qual è, lascia il finale aperto obbligandoci a ricominciare il viaggio alla ricerca di un particolare, forse minuscolo, che tuttavia potrebbe gettare nuova luce sulla vicenda. 

L'Incanto del lotto 49 è un libro piccolo ma cangiante, tanto che ad ogni lettura apparirà diverso. 

Le pagine sono pervase dalla nascente paranoia dell'America anni '60, la teoria del complotto e l'idea che la percezione stessa della realtà sia falsata ad opera di organizzazioni senza volto che coesistono parallelamente a quelle ufficiali; oppure, più semplicemente, quello straniamento è solo colpa delle droghe. Chissà. 

La prima volta non ci capirete niente e avrete l'impressione di essere stati presi in giro, forse è esattamente così o forse no, ma è un dato di fatto quindi arrendetevi all'evidenza. Resistere è uno spreco di energie fine a se stesso.

Se siete arrivati all'ultima pagina vuol dire che non avete ceduto alla tentazione di lanciare il volumetto conto il muro, ma è proprio una volta chiuso il libro che sentirete la necessità di leggerlo di nuovo. 

 

Gradimento: 8/10

Media Gradimento Pubblico e Critica*: 7/10

v* fonti in calce

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