Stefano Faravelli, un cacciatore di immagini e pensieri
Certe persone sono difficili da definire, soprattutto quando si tratta di artisti stratificati ed eclettici. Definire è sempre riduttivo ed ogni etichetta è una camicia di forza. Stefano Faravelli è un artista dal multiforme talento: è un pittore e nella fattispecie un acquarellista, ma è anche pensatore, filosofo, orientalista, viaggiatore. Il suo mezzo espressivo principe è il carnet di viaggio, o meglio il taccuino.
“La via del taccuino”, così aveva nominato il suo intervento al TEDxLakeComo, dove raccontava della sua arte. Abbiamo avuto il piacere di conoscerlo (per il momento solo telefonicamente) e ne è nato un bel dialogo ricco di spunti interessanti.
Salve Stefano, è davvero un piacere conoscerla. Come sta vivendo questa dimensione di clausura e sedentarietà, lei che è un grande viaggiatore?
In realtà questa dimensione mi è consona. È vero che sono un viaggiatore, ma non direi un grande viaggiatore, solo quando il viaggio mi chiama. Non sono un viaggiatore compulsivo, un dromomane. Invece nella mia vita ho passato molto più tempo in situazione di atelier monastico. Quindi questa situazione mi è congeniale, inoltre devo dire che mi ha ispirato. Ho creato un diario della pandemia che ha già la fisionomia di un libro, con immagini e parole.
Se dovesse spiegare a qualcuno che non la conosce chi è e che cosa fa nella vita, come lo farebbe?
Le definizioni le sento particolarmente strette, tanto è vero che il mio iter è pieno di ricominciamenti, di inizi. Se c’è una chiave possibile è quella del cacciatore, voglio essere considerato un cacciatore. Sottile, biofilo, non cruento. Ma caccio, caccio cose che sono nascoste, sia immagini che pensieri. Un mio grande amico, il filosofo, poeta ed entomologo Ernst Junger ha scritto un libro che si chiama “Cacce sottili”, dedicato alle sue cacce entomologiche, che però diventano argomento di meditazioni più filosofiche. La caccia è alla base del gesto artistico, è probabile infatti che la prima rappresentazione artistica dell’umanità fosse un’immagine legata alla caccia. Perché la caccia è mimesi, il cacciatore diventa la sua preda. Adesso, per esempio, sto disegnando dei granchi, dei carapaci, e appena ho iniziato a farlo è partita quell’attenzione mimetica che è inevitabile. Quando tu disegni un qualcosa diventi quella cosa, quell’atto primordiale di assimilazione è presente.
Parliamo allora proprio dei suoi disegni e dei suoi taccuini. Quando li ho visti per la prima volta ho pensato subito ai bestiari o ai taccuini di Leonardo, con quella commistione di calligrafia, disegni naturalistici ecc.
Certo. I miei antenati diretti, quelli a cui riconosco il massimo debito ispirativo, sono le mappe mundi medievali, che erano dei compendi. Dentro le mappe mundi c’era posto per il bestiario, per l’erbario, per la storia e il mito. Sono un tentativo di comprensione universale, che non può che essere dilettantesca. Hai giustamente menzionato Leonardo, tutta la sua esperienza passa per il taccuino, che è disegno e scrittura, esattamente come il suo umile epigono che qui ti parla.
Quando ha cominciato a realizzare questi taccuini e perché?
Ricordo che mi si chiedeva cosa desiderassi come regalo di Natale quando ero bambino, e io chiedevo degli album da disegno. Mi mancava sempre la carta. Allora non si trovava così facilmente come oggi della buona carta da disegno. Da bambino poi avevo delle difficoltà di apprendimento logico, esacerbate dal fatto che mi hanno mandato a scuola a cinque anni invece che a sei (anche per mia richiesta). Questo gap ha portato poi ad un problema serio nell’apprendimento, ma questo problema è stato compensato da un talento, io credo innato, e quindi c’è stata questa compensazione, che mi ha rassicurato dal punto di vista identitario. Quindi ho iniziato a disegnare tanto, sempre, a disegnare tutto. Gli album erano degli esercizi nei quali io cercavo di capire tutto quello che a me pareva estremamente interessante, in particolare le forme della natura. Il carnet di viaggio alla fine è stata la transizione fisiologica dell’album come palestra del disegno. Negli anni Ottanta poi ho visto una mostra sui taccuini di Delacroix all’Istitut du monde arabe che fu molto stimolante per me.
Lei ha fatto il liceo artistico e poi l’Accademia nella Torino di fine anni Settanta, un periodo in cui la pittura, e in particolare quella figurativa, non interessava più a nessuno. Com’è stato formarsi in quel contesto?
Io ero consapevole di avere un talento disegnativo. Arrivato all’Accademia mi sono reso conto che questo talento non serviva più a nulla, perché l’arte contemporanea può vivere fuori da ogni talento. In quegli anni a Torino incontravo Paolini e Mertz (nostro insegnante per un periodo) che andavano molto forte nel panorama artistico. Per un brevissimo periodo ho vissuto un’eclisse del talento, non perché il talento sia così importante, ma perché mi consentiva di arrivare al contatto delle cose attraverso il disegno e il pensiero. Mi sono reso conto che mediante altre vie, attraverso delle sopravvivenze di arti minori come il fumetto, il carnet di viaggio, il disegno architettonico, il disegno sopravviveva in lontane periferie. A quel punto ho esposto la mia prima mostra quando ero al primo anno di Accademia; era una mostra pseudo concettuale e indovina un po'? Ero in compagnia di Paolini e di Mertz. Poteva essere una consacrazione per me, invece è stato un momento di ripulsa, di rifiuto, capii che quella era una via che mi avrebbe perduto, avrei venduta l’anima al diavolo (letteralmente!), e quindi ho detto no. L’illustrazione per l’infanzia mi ha salvato, anche perché ho cominciato a vendere.
Quando è arrivato il viaggio? Quale è stato il primo grande viaggio che ha fatto e che l’ha segnato?
Direi che il primo viaggio veramente importante è stato quello in India di tre mesi alla fine degli anni Ottanta. Una giovane editrice aveva il padre che viveva a Delhi, e voleva che io facessi un carnet di viaggio, così mi ha sponsorizzato il viaggio e io sono stato da suo padre per questo periodo. Ho viaggiato per tutta l’India del nord e sono andato ad una grande cerimonia sacra, che è stata la più grande del XX secolo (ogni 120 anni ci sono cerimonie di quella portata). Quella è stata l’iniziazione.
Nell’epoca della globalizzazione e del turismo di massa com’è cambiato il viaggio? Può esistere ancora la figura del viaggiatore solitario in capo al mondo? (alla Walter Bonatti per intenderci)
È difficile dirlo. “E figurato il mondo in breve carta”, scrive Leopardi in quella poesia meravigliosa Ad Angelo Mai. Già nel primo Ottocento lui vedeva l’esaurirsi di quel viaggio di cui parli, del viaggio avventuroso, e il mondo aveva ancora larghe riserve di ignoto da scoprire. Ora queste riserve ci sono, un cacciatore sottile questi universi li trova, non necessariamente in viaggi esotici, li può trovare anche sotto casa. Io li ho trovati anche in spazi esotici. “Verde stupore” (uno dei suoi taccuini di viaggio più belli ndr) nasce da un’esperienza con una spedizione scientifica nel cuore di una foresta pluviale in Madagascar, che è una foresta primaria, ossia una riserva di primo livello e quindi inaccessibile se non con permessi speciali. Lì sono stato un mese a lavorare esattamente come i miei colleghi dell’Ottocento, disegnando e campionando animali con scienziati che, però, facevano prelievi per analisi molecolari con tecnologie sofisticatissime. La varietà del mondo è vasta ed esiste ancora la possibilità di avventura e, nel bene e nel male, riserve di intemporalità ci sono sempre. E poi l’umanità, l’umanità è straordinaria, e gli incontri con gli uomini sono affascinanti anche nell’epoca del turismo di massa. A me la distinzione fra turista e viaggiatore non è mai piaciuta, perché siamo percepiti come turisti e siamo tutti turisti. Secondo me però esiste una terza via che è il pellegrino, e io sono il pellegrino. Il pellegrino cerca l’invisibile, e quello è un viaggio che si radica nel visibile, perché non puoi farne a meno, ma puoi partire verso l’invisibile dappertutto, anche nel pieno di un centro turistico. Il viaggio vero è sempre un pellegrinaggio, e lo è sempre stato anche in antico, il viaggio di Ulisse è un pellegrinaggio.
L’incontro più incredibile che ha fatto durante questi viaggi?
Ci sono vari incontri… beh, la tigre, caspita! Il ruggito della tigre di notte nel parco di Ranthambore in India è un ricordo indelebile. Anche l’esperienza che ho fatto con gli scienziati nella foresta è stata incredibile, forse il viaggio sognato nell’infanzia, quello dell’esploratore. Lì abbiamo trovato delle specie nuove non ancora entrate nei cataloghi della tassonomia biologica. In quell’occasione ho disegnato l’olotipo di un piccolissimo camaleonte di cui si conosce un solo esemplare e l’unica rappresentazione iconografica è sul mio taccuino.
Incredibile! E come si chiama questo camaleonte?
È ancora senza nome, è un Brookesia e non credo gli abbiano dato il nome perché i procedimenti sono lunghi.
E lei gli ha dato un nome o un soprannome?
A me piacerebbe molto che lo chiamassero Brookesia Faravelli e si era anche detto di farlo, ma così scherzosamente poi chissà (il mio amico Junger ha dato il nome a tanti insetti pur essendo più un filosofo che uno scienziato).
Lei parla spesso del “pianto delle cose”, di che si tratta?
Il carnet di viaggio (carnet è una parola bruttissima, meglio taccuino) è costituito da tre elementi: il disegno, che è il vedere, il pensiero e quindi la scrittura, e l’apporto. L’apporto è tutto ciò che, avendo fatto esperienza di un certo universo, può entrare perché è sufficientemente sottile per essere assimilato in questo luogo di stratificazione geologica che è il taccuino. Si restituisce così una stratificazione come quella geologica che il libro stampato non rende. Invece noi viviamo calpestando la terra, che è composta di strati, così sono strati anche le pagine del mio taccuino. Quello che entra nel taccuino come apporto, la foglia, il biglietto, il frammento di carta, la moneta, l’insetto, la pelle del serpente… tutto ciò che è per terra va raccolto e tesaurizzato. Sono tutte cose che emanano e sprigionano un’energia enorme. Questo dal punto di vista del taccuino, ma se tu guardassi casa mia e il mio studio ti accorgeresti che è lo stesso. Io sono un raccoglitore… la parola compulsivo non mi piace (ride ndr), sono un raccoglitore misericordioso di cose.
Bella definizione, la utilizzerò perché anche io sono un accumulatore.
Poco prima che mi chiamassi ho ritrovato in camera di mio figlio un libro di fisica dell’Ottocento che avevo raccolto in una pattumiera nel deposito della carta a Torino. Sono luoghi che io frequento moltissimo e in cui ho trovato dei tesori di inestimabile valore, carte su cui realizzo le mie opere. Io non compro una carta in un colorificio da tantissimi anni, uso solo carte riciclate, e sono carte che hanno storia.
Ha usato il termine “tesaurizzazione delle cose”, per quelle più bizzarre e particolari immagino. Mi vengono in mente le Wunderkammer…
Assolutamente. Io vivo in una Wunderkammer da quando ero bambino. Poi dopo ho scoperto l’esistenza di queste. Prima le ho create, poi le ho scoperte. La Wunderkammer nasce come teatro della memoria, che è un tentativo di conoscenza universale, che ha avuto all’origine un meccanismo di mnemotecnica.
Che è un po' quello che ha provato a fare Aby Warburg…
Esattissimo. Il nostro grande maestro. La parola museo è fondamentale, evocata come genitrice delle muse, e il museo originalmente è proprio questo, è un tesoro.
Le piacciono i musei? Li frequenta molto?
Sì, i musei mi piacciono molto, ce ne sono di bellissimi e geniali per loro concezione. L’anno scorso, per “Matera 2019. Capitale europea della cultura”, ne ho creato uno, un museo della città: “la secretissima camera dello core” nelle stanze di una biblioteca. Lì ho potuto dare forma ad una mia idea di museo, che è un viaggio iniziatico, un calarsi all’interno della pancia della balena come Giona o come Pinocchio, che è un luogo dove le cose piangono, suonano, dove si sente il canto delle cose. Bisogna togliere dalla parola quell’abuso semantico che ci fa pensare al museo come a qualcosa di polveroso (che poi, a me, la polvere piace molto, ride ndr).
Quanto è importante per un artista frequentare i musei e nutrirsi dell’arte del passato per generarne dell’altra? Oggi sembra che la figura dell’artista sia piuttosto avulsa dai suoi colleghi del passato.
Guarda, ti dico che io sento mio contemporaneo Dürer, Bosch, Blake. Io, in loro, ho degli amici. Poi naturalmente non solo pittori, anche scrittori (Goethe!) sono amici, persone con cui sono in costante dialogo mesmerico. Non me ne frega niente di quello che fa Cattelan! Questo è un tempo dal quale ho deciso di assentarmi momentaneamente. Cosa vuoi che mi importi dell’ultimo grido della moda, ci sono un sacco di cose più importanti che mi chiamano.
Non c’è il rischio di non vivere il presente ed essere un po' anacronistici?
Il fatto è che il presente lo vivo comunque, volente o nolente. Il presente ci invade in tutti i modi. Poi ovviamente voglio confrontarmi con persone a me contemporanee, ma che sento affini, che hanno fatto scelte simili alle mie. Ci sono, ma siamo una minoranza. Per esempio nella mia vita ho frequentato a lungo Guido Ceronetti, che è stato un amico e per il quale ho anche lavorato creando marionette per il suo teatro. Lui è stato una grandissima forza di rappresentazione dell’inattualità. Gli antimoderni ci sono, ci sono sempre stati. Ogni periodo ha i suoi. Gli antimoderni poi spesso risultano più futuri della modernità presente, autori che sono stati capiti oltre il tempo in cui vivevano e scrivevano. Perché il tempo non è lineare, il tempo è puntuale, è fatto di istanti eterni, il vero presente è l’eternità e l’eternità ci mette in contatto con tutti i tempi. Per questo io sono contemporaneo di Bosch e del primo uomo che ha dipinto Altamira.
Com’è nata l’amicizia con Ceronetti?
Lui scriveva delle poesie su dei cartoncini, che poi spediva a dei suoi amici (Calasso, Fellini etc.), e cercava delle persone che gliele illustrassero. A quel punto la cugina di una mia allieva che faceva lezione di disegno da me, conosceva Guido che vide allora dei miei disegni e mi chiese di collaborare con lui per disegnare delle immagini a partire dalle sue poesie. Non c’era un compenso, ma lo feci, e quei disegni venivano poi spediti a Fellini e agli altri. Le marionette sono un altro mondo meraviglioso…
La chiamata potrebbe andare avanti per ore, Stefano ha tanto da raccontare e io tanto altro che vorrei chiedergli, ma è già trascorsa più di un’ora e deve lasciarmi. Lo ringrazio di cuore per il tempo che ci ha dedicato. Ci auguriamo di incontrarci in futuro.
Se vi siete incuriositi e appassionati a Stefano Faravelli e ai suoi taccuini, sul suo sito e nel seguente video potete approfondire il suo lavoro.