Renato Mambor e l'altro

“Non esiste linguaggio se non c’è l’altro”. Se bastassero solo queste poche parole pronunciate da Renato Mambor per descrivere e presentare la sua personalità, probabilmente la sua opera non avrebbe assunto l’importanza storica cui gode nell’arte.

Per spiegare la complessità di tale espressione bisogna tornare agli anni Sessanta, periodo in cui Mambor inizia la sua ricerca artistica nel pieno fervore di Piazza del Popolo, accompagnato e stimolato dai suoi amici artisti: Festa, Tacchi, Schifano, Lombardo, Lo Savio (solo per citarne alcuni).

Il 1960 è l’anno zero: l’artista sostituisce al cavalletto un piccolo tavolo da falegnameria e costituisce i primi quadro-oggetto sotto il fascino e l’influenza di slogan come “Bisogna azzerare tutto, azzerare l’informale” o “Togliere l’io dal quadro”. Mambor inizia a maneggiare così materiali industriali alla ricerca del segno archetipale, li studia e ne estrapola la loro essenzialità formale e lascia che il suo ruolo di creatore rimanga nell’ombra dell’anonimato: l’opera è solamente colore, forma, composizione, l’artista è invece il ponte.

Cosa significhi veramente essere “ponte” lo spiega Calvesi studiando le tele con il soggetto degli Uomini statici (1962), delle sagome di omini, privi di qualsiasi caratterizzazione fisica e simili a icone standardizzate di esseri umani, che si stagliano su grandi tele dal fondo neutro. Secondo Calvesi è proprio in quest’immagine che si trova il manifesto di Mambor: “(…) sembra voler rinunciare alla propria identità proponendo un ponte, o una discesa, verso le immagini della civiltà massificata, e così attualizzandosi”(nota 1).

Mambor rimanda il significato dell’opera all’atto di appropriazione dello spettatore, che riconosce in tale figure anonime i simboli di una cultura di massa.

Pochi anni dopo, nel 1964, l’artista realizza i Timbri da usare per un’azione: offre ad ogni spettatore le sagome inespressive dei suoi omini incise su dei stampini da apporre liberamente su un foglio. L’intento è ormai chiaro: l’artista lascia agli altri la realizzazione dell’opera che si definisce completa solo se esperita dal prossimo fruitore.

Laura Cherubini definisce l’arte di Mambor di questo decennio intersoggettiva, riferendosi alla dimensione interattiva delle sue opere. Fra queste merita una menzione speciale Diario ’67, un’opera collettiva esposta a La Bertesca di Genova dove nello stesso anno erano presenti le mostre Arte Povera e Im-Spazio, curate da Celant. L’opera si costituisce di 11 pannelli, ognuno dei quali è affidato ad un altro artista e amico di Mambor che, come su una pagina di diario, lascia il suo racconto personale su una tela.

Diario ’67 denota ancora più chiaramente la fuoriuscita del soggetto per approdare ad un’opera corale dai risvolti surrealisti. Come la formula del Cadavre Exquis (Il cadavere/squisito/berrà/il vino/nuovo), l’opera si è composta nel momento in cui l’io, Renato Mambor, si è coniugato con il noi, il suo gruppo di amici artisti, (il cosiddetto “Club” nelle parole di Calvesi, nota 2), per mettere a fuoco un pensiero comune, super-individuale e collettivo (Cherubini, 1996).

Tutto l’opera di Mambor si può quindi riassumere in una formula d’arte intersoggetiva e intrasoggettiva: dall’utilizzo della fotografia come mezzo meccanico depersonalizzato, fino ai cosiddetti giocattoli-veicoli azionati, l’operazione dell’artista è stata sempre quella di mediare tra le due parti, tra l’arte e il pubblico. In questa direzione si muovono anche le performance e le azioni teatrali dagli anni Settanta. L’entrata del teatro nella sua indagine artistica segnerà un altro punto importante nella sua ricerca dell’altro. Tale investigazione si rinnova nei termini delle opere degli anni Novanta in cui compaiono le figura sagomate dell’Osservatore, intento ad ammirare insieme a noi delle superfici dipinte.

Il lavoro di Renato Mambor così descritto in pochi passaggi mostra la sua complessità di contenuto più che di forma. L’opera non è definita e non è definibile, è inerme e anonima fino a quando non è il pubblico ad attivarla. Vive in una dimensione transeunte, quella dell’hic et nunc del dialogo. La sua esistenza non può prescindere dalla nostra presenza.

 


  1. M. Calvesi; P. Speciale; M. Riposati (a cura di), Renato Mambor. Relazione, cat. Mostra, MLAC, Roma, 31 gennaio -24 febbraio 1996, Carte segrete edizione, p. 8

  2. Cfr. M. Calvesi, “Il club di Renato” in Renato Mambor. Relazione (1996)