Pulp, vite e storie da bar di Sergio Andrei
L’esordio di un artista è l’accumulo di vita stratificatosi dalla sua venuta al mondo fino all’atto della pubblicazione. Che sia un romanzo, un film o un disco, il debutto artistico contiene in nuce già tutto; è come se l’artista vi avesse lavorato sempre, senza saperlo.
Così le opere prime, sebbene ancora acerbe e immature, sono spesso tra le più interessanti, specie quando realizzate in giovane età.
Pulp è il debutto musicale di Sergio Andrei, disco dalle tinte fosche che si muove tra banconi di bar luridi, amori sbagliati e ferite da rimarginare, in una Roma borgatara bistrattata e malconcia. Il giovane cantautore romano arriva alla pubblicazione dopo anni di incubazione e gavetta, di singoli e serate live.
10 brani – di cui sei inediti – per una mezz’ora abbondante di musica suonata in studio con gli arrangiamenti di Umberto Scaramozza e Jacopo Troiani.
L’immaginario al quale rimanda il disco risulta evidente fin dal primo ascolto: è quello di riviste patinate, di magazine e fanzine, di pellicole cult e situazioni tra il poliziesco e l’hard boiled, tra un quadro di Hopper (Nighthawks) e un disco di Tom Waits. Sebbene l’immaginario sia dunque fortemente statunitense, diverse sono le fonti musicali alle quali Sergio Andrei attinge, marcatamente nostrane.
Sembra essere la tradizione del cantautorato italiano il riferimento del giovane romano, da De Gregori (che apprezzava già in tenerissima età) a de André, passando per Rino Gaetano e Gaber, con aperture interessanti anche a musicisti contemporanei (non è infatti avulso da contaminazioni indie).
L’ascoltatore potrà ricostruire l’immagine di una città reale e fittizia, che si muove tra il pasoliniano quartiere Ostiense, in quel ponte di ferro divorato dalle fiamme in tempi recenti, e un fiume in piena che scorre tormentoso trascinando storie.
Genesi apre il disco, riferimento al primo libro biblico ma anche allusione alla nascita di questo progetto musicale, cominciamento di una carriera che si annuncia promettente.
Seguono tracce ricche di suggestioni come Maria, e brani intensi come Ciò che rimane, canzoni tese tra un dramma indigesto (e forse indigeribile) e una risata seppellente. E ancora canzoni più radiofoniche e cantabili come Giulia, e brani intimi come Messo al mondo.
Vite da bar potrebbe essere il manifesto del disco, vista anche la copertina dell’album; canzone programmatica di una vita un po' bohemien, anticipata già dal singolo Monologo al bancone, brano recitato che manifestava la propensione di Sergio Andrei anche alla recitazione.
La sua creatività è infatti versatile e multiforme, proprio come il succitato cantautore e attore di Pomona, e lo vediamo quindi interprete anche nel video musicale di Ciò che rimane, dove protagonisti sono due attori provenienti dalla fucina di Lundini (Roberto Torpedine e Carlo Silvestri).
Ciò che rimane alla fine del disco è la consapevolezza di aver ascoltato un promettente giovane artista, la cui opera prima è già ricca di spunti interessanti, una bella scoperta nell’omologazione musicale odierna.