Laurent Mauvignier - Storia di un oblio

 
 
Titolo originale: Ce Que J'Appelle Oubli

Traduzione a cura di: Yasmina Melaouah

Casa editrice: Feltrinelli

Edizione: 2012

Pagine: 58

"...e il procuratore ha detto che un uomo non può morire per così poco, che non è giusto morire per una lattina di birra che uno ha tenuto in mano troppo a lungo..."
Questo non è l'inizio di un romanzo, cosa che "Storia di un oblio" non è. Questo è il primo accenno di un grido di dolore ed indignazione per la straziante superficialità che questo mondo di apparenze ha raggiunto. Un grido che aumenta di intensità e forza ad ogni parola, ci entra in testa e sottopelle e fuoriesce in forma di piccoli, costanti brividi di emozione e commozione. Gli stessi che spesso, mentre si sfogliano le pagine con una velocità impensabile, è facile presupporre colgano lo stesso autore, fermandone la mano mentre scrive di come un uomo possa morire massacrato di botte da un gruppo di vigilantes sul gelido pavimento del magazzino di un supermercato, a causa di una lattina di birra consumata senza avere la possibilità di pagarla. Il narratore racconta tutto questo al fratello della vittima, in un monologo che è un fiume in piena di frasi piene di incredulità e rancore il cui flusso violento viene rallentato solo da alcune virgole, poiché un punto non potrebbe mai essere una diga sufficiente alla sofferenza che una morte ingiusta ed insensata può causare; tanto è grande lo sconcerto che alle volte non riesce a tenere il filo del discorso perché subito gli balenano in mente altri pensieri, frammenti, dettagli, in un crescendo di atrocità che rende tutto irreale e frenetico. Entrando in simbiosi con la voce narrante si realizza che in quei momenti la confusione è dovuta al compenetrarsi di immagini e parole, con queste ultime che non sono in grado di muoversi rapidamente come le prime e di descriverle con la verità che a volte solo gli occhi sono in grado di cogliere; si è toccati profondamente dal senso di impotenza che egli prova nei confronti dell’assenza così improvvisa di una persona che un tempo gli era vicina, nonostante le cose fossero cambiate e le strade si fossero separate. L'immaginazione ci porta a vederli uno di fronte all'altro, lui in lacrime che scuote la testa, l’altro immobilizzato da una schiera di sensazioni che lo rendono apparentemente insensibile, mentre davanti ai suoi occhi si palesa l'immobilità irreversibile del corpo esanime del fratello sul cemento del magazzino, ucciso per divertimento o noia da altri esseri umani che in quel momento hanno scelto di smettere di essere tali e, credendosi onnipotenti, hanno espresso il loro giudizio universale e insindacabile condannando a morte un uomo per ciò che è, svuotandolo di ciò che è stato e di ciò che poteva essere; Dèi illegittimi e improvvisati che pongono fine ad una vita che per loro non vale la pena di essere vissuta perché dietro un uomo che vive di nulla può esserci solo altrettanto nulla; interpreti ed attuatori di quella visione distorta, propria della nostra modernità, che porta ad attribuire un prezzo agli individui come fossero merce esposta sugli scaffali di un supermercato, così che ad un uomo povero e sbandato, vestito di stracci ed in cerca di amori facili possa essere assegnato un valore inferiore a quello di una lattina di birra. E' tristemente ironico sapere che egli non accartoccia la lattina appena consumata, per trovarsi pochi istanti dopo accartocciato al suolo, morente: in tal senso possiamo leggere una metafora nell'immagine di copertina, in cui la lattina è l'uomo e la mano che la stringe sono gli assassini.
Struggente ed illuminante dalla prima all'ultima parola, l'unico modo per affrontarlo è sapere che non si deve semplicemente leggerlo, si deve in un certo senso recitarlo da attori protagonisti, come fossimo noi stessi ad essere lì a parlare con la voce rotta dal pianto, così che possiamo fare nostra una lezione importante: ogni giorno, ad ogni passo destini e storie si incrociano, sfere di vita si intersecano per una frazione impercettibile e forse solo per quella in un’intera esistenza; in quelle microscopiche intersezioni, gli unici elementi in comune sono lo spazio ed il tempo ed allora nulla, per nessun motivo, può consentire ad alcuno di sentirsi in diritto di giudicare l’intero contenuto della sfera di un altro, solo per questa misera ed irrilevante condivisione. Come si può giudicare gli altri, senza contemporaneamente giudicare se stessi, noi che siamo tutti esseri umani?

Media Critica e Pubblico*: 7.5/10

Gradimento: 9.5/10

*v. fonti in calce

Altre recensioni

Anobii (3,5/5)

Good Reads (4/5)