LA STORIA DI IVO - L'intruso - Parte ottava

E’ passato del tempo. Ivo è diventato grande. Non è più il tempo dei giochi e dei sogni. Sta per diventare padre. Una faccenda non da poco ricca di lusinghe e di sfide. Una faccenda a saldo zero.


Quando seppe che sarebbe diventato padre, la prima reazione di Ivo fu un grande disorientamento che nasceva dalla difficoltà di decidere che senso avrebbe dovuto avere per lui quella nuova presenza che si insediava nella sua vita. Una cosa difficile da mettere a fuoco. Antropologia, Psicologia, Cultura, Economia, erano gli utili strumenti che avrebbero dovuto aiutarlo a centrare il bersaglio della Paternità ma che, nell’urgenza di dover capire cosa era e sarebbe poi accaduto, non riuscivano a risultare utili.

In assenza della meccanica, immediata simbiosi che madre natura introduce tra chi nasce e chi è materialmente artefice di quella nascita, Ivo era alla ricerca di una pur remota causa causans che potesse fornirgli una decisiva risposta alla domanda “perché?” aprendo una strada facilmente riconoscibile per avviarsi con naturalezza e consapevolezza verso la sua imminente Paternità.

Senza tale risposta, quel figlio che nasceva era null’altro che un intruso. Era qualcuno che si intrometteva in un discorso già avviato da altri e di cui erano già stati da tempo definiti i temi, i linguaggi, le implicazioni. Qualcuno che sarebbe entrato motu proprio in quel discorso per una coerenza degli eventi della quale si doveva essere soltanto disciplinati partecipi.

Quell’intrusione era di una potenza e di una drammaticità incontenibili. Il microcosmo in cui il nascituro si inseriva mutava senso, tutto si piegava ad accogliere il nuovo venuto organizzando cessioni di autonomia, conciliando le esistenti tensioni amorose con nuove, diversamente amorose, tensioni che il piccolo intruso avrebbe preteso per sé, modificando gesti, pensieri, desideri che per molto tempo erano stati approntati per altri commensali e che ora dovevano produrre un nutrimento adatto al più delicato palato del nuovo ospite insediatosi a mensa.

Era soltanto Ivo a ruminare queste indiscrete riflessioni su quanto stava per accadere. Dall’altro lato del talamo la vicenda che veniva narrata era un’altra. Si parlava di tenerezza, fusione, calore, protezione, tutti elementi di un modo di porgersi che erano estranei a chi quell’evento aveva costruito solo come occasionale comprimario recitando un copione che lo lasciava fuori dalla scena madre della grandiosa rappresentazione che stava andando in scena.

Non era quindi grande scandalo che queste diversità dessero vita a una Babele tale da impedire di intendersi dai due versanti dell’evento perché da un lato veniva usato il linguaggio dell’assoluta appartenenza e dall’altro quello della responsabile partecipazione. Come se una lingua un tempo comune si fosse d’incanto scissa in due lessici ognuno adatto soltanto a una specifica esigenza espressiva.

Ma non si trattava soltanto di imparare a comunicare e a comprendere un nuovo linguaggio perché era in agguato e si sarebbe manifestato con crescente evidenza un terzo linguaggio. Non i teneri, troppo facilmente decifrabili, richiami che il piccolo intruso sarebbe stato capace di mettere in gioco ma le autoritarie manifestazioni della sua robusta fragilità che si sarebbero imposte con la forza magica di una semplice presenza.

Ivo intuiva che quello che stava per porre le proprie basi nella sua vita era una specie di ossimoro vivente che derivava la sua capacità di esistere da una serie di intrinseche contraddizioni, tra cui quella di essere, al contempo, atteso, desiderato, necessario e, contro tutto ciò, temuto come un intruso.

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Per conoscere il seguito di questa storia è necessario lasciar passare del tempo consentendo al piccolo intruso di crescere, di costruire il proprio volto e di essere infine lui a scrivere l’ultima parte di quanto è qui raccontato.

Avrebbe scritto di essersi un giorno accorto di aver prodotto un’idea. Era ancora piccolo e anche la sua idea lo era. Avrebbe aggiunto che quando si era trovato tra le mani quella sua idea ne era stato molto orgoglioso, tanto da cominciare ad esporla in giro, con tutti ad accoglierla compiaciuti. Avrebbe anche ricordato che suo padre gli aveva suggerito qualcosa per perfezionarla, un piccolo taglio qui, una non troppo invadente aggiunta lì per rendere quell’idea veramente perfetta. Un’intrusione che portava con sé l’indesiderato ingrediente dell’amorosa attenzione e che avrebbe potuto indurre il piccolo ad accogliere quanto gli veniva suggerito oppure a ribadire la propria idea così come era stata immaginata.

L’intruso di un tempo, inconsciamente memore dell’effetto che aveva avuto la sua antica bravata di irrompere in una vita altrui e forse temendo che, in una sorta di nemesi, si stesse consumando contro di lui un’analoga, ugualmente inconsapevole, intrusione, ringraziò suo padre dei consigli ma riaffermò la propria idea così come era stata pensata.

Era il primo passo di una lunga marcia che lo avrebbe condotto molto lontano. Aveva alzato una barriera che, nel tempo, avrebbe potuto consentirgli di non lasciarsi invadere da idee politiche, atteggiamenti morali, piccole e grandi convinzioni provenienti da ogni parte.

Fino al giorno in cui, come lui aveva inconsciamente fatto tanti anni prima, un altro piccolo intruso avrebbe da lui preteso con autorevolezza, amorevolezza, tenerezza di varcare la sua porta insediandosi in uno spazio non suo.

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