La fidélité. Fedeltà, sadismo, perversione.

Fra i vari titoli incongrui disponibili sul vasto (e terribilmente confusionario) catalogo di Prime video figura La fidélité, uno dei film più dimenticati di Andrzej Zulawski. Le sorti della carriera cinematografica del regista sono state indissolubilmente legate fisicamente e concettualmente con la Francia, la sua cultura, i suoi luoghi. La fidélité da questo punto di vista non fa eccezione. Nel 1975 esce L’importante è amare, primo film realizzato in terra francese, opera che segnalava nel suo plot un topos narrativo destinato a segnare anche l’estetica della produzione successiva del regista polacco: la storia d’amore tragica fra due individui fatalmente legati da un sentimento viscerale. Questo pathos – colto nel taglio obliquo e audace delle inquadrature del regista – è una forza cieca che conduce, esasperando lo spettatore ed esautorando l’immagine filmica di momenti insostenibili e parossistici, in una spirale di deliri autodistruttivi. L’amore, in un certo senso, è per Zulawski un orribile figlio – come la creatura lovecraftiana di Possession, nata dall’angoscia di Isabelle Adjani – e l’estasi, il godimento che propone, è fatto di un miele intriso di veleno, di un eccesso fatto di spasmi ed estasi. Zulawski, dunque, recupera il genere del melodramma per proporne una versione orrifica. Qual è l’interesse – ci domandiamo - di una simile operazione retrospettiva nell’accostarci a La fidélité? Di questo esitare sulla filmografia precedente. Precisamente, rispondiamo, quello di segnalare come quest’opera possa offrirsi ai nostri occhi come un pendant de L’importante amare, conclusione della sua esperienza cinematografica francese – almeno per molti anni – così come il primo film ne annunciava l’ouverture; quest’ultima, tuttavia, si costituisce al contempo come un’esperienza decisamente più personale.

La vicenda autobiografica del regista entra prepotentemente in La fidélité in quanto il film vede come protagonista Sophie Marceau, sposata all’epoca con il regista da undici anni, attrice e moglie in un momento ben preciso della loro vita coniugale: quello del divorzio. È interessante notare come Zulawski sceglie come riferimento testuale per la sua opera un classico della letteratura francese, La principessa di Cléves di Madame de Lafayette - romanzo che mette in scena adottando una notevole libertà creativa - capolavoro di sottile psicologismo che esibisce i tormenti di una donna divisa fra sentimenti inconciliabili. Marceau è allora Clélia, donna contrastata che tuttavia vive nel nostro presente, e in questo contesto può vantare rispetto alla propria controparte storica una risorsa essenziale per affrontare l’abisso emotivo che la logora: l’arte. Clélia infatti è una fotografa appena arrivata a Parigi per lavorare in un importante azienda che si occupa di ambiti eterogenei – dalla cultura all’intrattenimento più dozzinale. L’esperienza artistica è qualcosa che tuttavia condivide con i due personaggi comprimari: il principe Cléves qui è Clève, un letterato impacciato che ama teneramente la protagonista, che nel frattempo diventerà presto sua moglie, mentre il duca di Nemours – il promiscuo e affascinante cortigiano del romanzo di Madame de Lafayette - è Nemo, fotoreporter rissoso e virile, collega di Clélia, che ha fatto fortuna nel mondo scandalistico con i suoi scatti iperrealistici. Il contrasto fra i due fotografi è evidente: Notiamo infatti che gli scatti dinamici della protagonista – quasi isterici per certi versi - catturano una realtà effimera ed eterea. Questi, tuttavia, costituiscono al contempo nel suo agire quotidiano come un riflesso incondizionato: il reale è filtrato, come sublimato attraverso la mediazione della pratica fotografica, schermo di un reale che si vuole disperatamente fuggire. Quando l’ossessione di Clélia per Nemo diventa insostenibile - lui ha invaso i suoi spazi “visuali”, inseguendola e spiandola a casa - vediamo una scena significativa dove lei, sentendosi presa in trappola, viene catturata da una furia difensiva che la conduce ad aggirarsi scompostamente per le stanze scattando freneticamente fotografie verso ogni angolo, come dunque ad esorcizzare e neutralizzare con quel gesto la realtà di un desiderio insostenibile. Clèlia infatti – come la protagonista del romanzo – è di una fedeltà quasi spirituale, una spiritualità che vive di erotismo come quello di certe sante mistiche del medioevo.

Tuttavia, questa prima interpretazione della pratica fotografica di Clélia è riduttiva. La mediazione fra reale e immaginario, operazione messa in moto nelle sue istantanee, è un processo dialettico che nega la conciliazione. Infatti, se da una parte la protagonista si difende, dall’altra, condividendo la stessa fiducia nel mezzo fotografico, essa compie un processo metamorfico che porterà i due ad avvicinarsi in uno spazio che è precisamente quello del loro mutuo lavoro, delle loro creazioni al tempo stesso personali e professionali. Questo, lo vediamo nel finale del film quando Nemo – uomo distrutto dalla perdita della donna – muta drasticamente il suo stile. Non si tratta di un’imitazione pedissequa: i due sono diventati quasi la stessa persona, come afferma la giornalista che intervista il fotoreporter convertito a quell’arte estetica e autoreferenziale che prima disprezzava. Il mondo aereo di Célia non è il mondo dell’evasione, della fuga dalla realtà, così come il reale esasperato di Nemo non è il vero reale, che risulta in ultima analisi irrappresentabile. È l’esperienza del loro eros che ha permesso questo scambio fusionale, questa nuova intimità, la loro ultima e definitiva presa di consapevolezza. Il loro rapporto eccentrico e debordante si riflette nell’andamento fluttuante del film – fatto di cadute drammatiche e momenti ridicoli e grotteschi –, così come nella fine miseranda di Clève, che muore preda di una convulsione che sembra, in modo più generale, segnare le prove attoriali di tutti i personaggi. Precisamente a Cléves occorre rivolgersi per tirare le fila di questa riflessione: lui, lo scrittore per bambini, il poeta, è in un certo senso Zulawski (che a seguito del divorzio con Marceau dedicherà più tempo alla scrittura che al cinema) uomo abbandonato che comunica con un linguaggio diverso dalla moglie. Quando lui lascia la loro casa e lei si ritrova sola a vagare per le stanze, è sullo specchio del bagno che Clève scrive il proprio messaggio di commiato, gesto esemplare che indica un’inconciliabilità di modi di essere e comunicare che anticipa il finale del film, in cui lo si vede ridotto alla risibile parvenza di fantasma digitale, figura che stride nell’economia della rappresentazione filmica come quelle graffianti parole scritte a forza sulla chiara superficie riflettente dello specchio.