Il Toy Story malinconico di Fulvio Abbate ci aiuta a ricordare

 

“Le cose ci sopravviveranno”, dice Fulvio Abbate, entrando in scena con l’ormai iconica chioma laterale, la camminata dinoccolata e una t-shirt nera su pantaloni scuri che fa tanto casual chic ironico.  E le “cose” sono le sue muse, le protagoniste assolute di uno spettacolo che è un flusso di coscienza alimentato dalla continua apparizione di piccoli oggetti, strappati a una casa distrutta, a una mensola impolverata, al lunotto di un’auto, al comodino. E restituiti a un pubblico, mediamente agée, che li riconosce e li usa per tuffarsi nel passato.

Stasera al teatro Off/Off di Roma va in scena l’ultima replica del fortunato “Teatro degli oggetti” di Fulvio Abbate. Lo scrittore, blogger e polemista di origini siciliane, è rimasto fedele alle sue origini, la provincia di Palermo, non solo per le vocali aperte, ma per un personale rapporto con la storia e la politica fatto di ironia che diventa sberleffo continuo, nello scetticismo che fa rima con pessimismo e nella capacità di inventare parole e racconti, laddove altri vedrebbero solo rottami. Abbate, accompagnato dalla fisarmonica suonata dal maestro Marcello Fiorini, fa il vintage storyteller: mostra al pubblico un oggetto, mediamente desueto e apparentemente inutile, e ne trae spunto per raccontare una storiella famigliare, un aneddoto popolare, un mini affresco storico-socio-politico. Ecco come un vecchio posacenere del resort “Città del mare” diventa il probabile triste cimelio di un giovane Gorbaciov che, per una volta da giovane, poté passare una settimana nell’allora nemica Europa capitalistica insieme ad altri grigi compagni d’apparato, come faticato premio fedeltà burocratica generosamente concessogli dal Partito. E una cannuccina avvolta da un mini serpentino, il macabro dono di un vecchio amico morto che la usava per sniffare la cocaina. E che gli disse, allungandogli l’oggetto: “Vedi come fa schifo (la mia vita)”.

E ancora: un manifesto dell’epoca che denunciava la scomparsa di Emanuela Orlandi, rimasta un fantasma: “Andy Wharol ne avrebbe fatto un’opera d’arte pop”. Una bandierina delle Brigate Rosse, che oggi non fanno più paura e i cui gadget “si possono comprare su Amazon”. E la cinepresa in super 8 di un sarto ebreo, Abraham Zapruder, che casualmente filmò l’omicidio di JFK a Dallas. E le locandine che invitavano i giovani ad arruolarsi nella polizia, “così finalmente un poliziotto poteva dire al papà che andava all’università (a manganellare gli studenti in protesta)” e pure un vecchio scudo antisommossa, agitato da Abbate nella presa in giro degli anni di Piombo.

Qui la Storia viene rievocata con dramma e ironia, i riferimenti colti e precisi immersi nella farsa. La Recherche dello scrittore palermitano non ha apparentemente un filo logico e le sue madeleine sono buffe e forse sporche, ma l’effetto nostalgia spunta forte e i diversi ex comunisti in sala esprimono ora sgomento, ora tenerezza, verso i reperti di quegli anni ruggenti.  E c’è pure la mistica popolare con l’immagine votiva di una santa peruviana che rende invisibili i ladri e l’equivoco souvenir con un pope greco che accompagna una devota a pregargli in zona pene, con tanto di maschia pressione sulla testa. E ancora un pesce canterino e un omino di plastica che fuma una mini sigaretta. Nel romanzo visivo e parlato di Abbate le cose si animano, come in un malinconico Toy Story. Solo che i “giocattoli” stavolta non vogliono vendicarsi di un bambino cattivo, ma aiutare gli ex bambini a non dimenticare, restituendoci un’epoca, dei personaggi, dei sentimenti.

Abbate, che fa avanti e indietro col backstage prendendo e scaricando piccoli vecchi arnesi, è un disilluso e dissacrante Virgilio del nostro passato accantonato, ci guida falso-mesto e senza ambizioni salvifiche nella nostra soffitta piena di dimenticanze, ignoranza e auto-assoluzioni comode. A un certo punto il primattore mostra la piccola propaggine di plastica di un 45 giri, fonte di antiche musiche per intensi balli in un salotto passato: “C’è scritto, piccolo piccolo, gelosia”.  Le cose ci sopravviveranno, certo, ma avremo ancora gli occhi per saperle guardare?