Il giardino dell'arte, conversazione con Claudio Strinati

“Capire la bellezza è una funzione dell’anima. Come si esercita? È quello che ti appresti a imparare. È il motivo del tuo personale Grand Tour”

David è un giovane studioso, dottorando in storia dell’arte in un’università canadese. Affascinato dall’arte e dalle bellezze italiane, riceve in regalo dalla nonna un viaggio in Italia e parte così alla scoperta del paese tanto desiderato e oggetto dei suoi studi.

Da lontano lo segue un professore universitario, suo mentore e guida, con il quale intrattiene un carteggio via mail per tutto il suo viaggio. Il Grand Tour, fino ad allora letto e studiato sui libri, viene percorso in prima persona da David, e diventa anche un viaggio alla scoperta di sé. Il giovane stringe quindi amicizie, incontra studiosi e appassionati, visita città, musei, chiese e molto altro, in un viaggio iniziatico avvincente e affascinante.

Questa, in sintesi, la trama di Il giardino dell’arte. Il romanzo di un viaggio fra le meraviglie d’Italia, prima opera narrativa per Strinati a metà tra il romanzo di formazione e quello epistolare. Da Roma a Venezia fino a Palermo, passando per Firenze, Napoli ma anche Cremona, Udine, Padova, Ferrara e molte altre città, Strinati accompagna il lettore per mano raccontandogli la storia dell’arte tramite luoghi, opere, persone e artisti. Un volume ricchissimo, che traspare cultura ad ogni riga, ma in maniera sempre piacevole e mai pedante.

Claudio Strinati è un affermato storico dell’arte e musicologo, studioso esperto del Cinquecento e del Seicento, a lungo soprintendente per il Polo museale romano, e, inoltre, è un apprezzatissimo divulgatore.  

Abbiamo avuto il piacere di conoscerlo e la possibilità di fargli alcune domande sul libro.

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Perché ha deciso di scrivere un romanzo? Come nasce questa sua prima opera narrativa?

Tempo fa, in occasione della presentazione che avevo fatto di un libro scritto da una mia collega archeologa, la direttrice della casa editrice Salani, Maria Grazia Mazzitelli, mi disse che apprezzava molto il mio modo di presentare e la mia inclinazione narrativa. Dal momento che la Salani ha questa forte vocazione divulgativa, rivolta ad un pubblico giovane (basti pensare che è la casa editrice che detiene l’esclusiva in Italia di Harry Potter), mi chiese di scrivere un libro che fosse un’introduzione alla storia dell’arte per i giovani. Ho deciso di provare, utilizzando una mescolanza di generi. Il carattere saggistico rimane, però intarsiato su un filo narrativo. In questo modo il libro può essere letto come un romanzo ma anche come una specie di lungo saggio.

Credo che sia un libro apprezzabile sia da un adolescente che da un giovane studioso, ma anche da adulti curiosi e desiderosi di avvicinarsi alla storia dell’arte. Mi ha ricordato alcuni libri di Jostein Gaarder, lo scrittore norvegese autore de Il mondo di Sofia, che hanno una struttura narrativa piacevole affiancata da una buona dose di nozioni.

Mi fa molto piacere. Certamente l’intento che avevo nello scrivere il libro era proprio questo: dialogare sia con un potenziale lettore ignaro della materia ma desideroso di orientarsi, sia con l’opposto, ossia un lettore dotto della materia, che può magari arricchire le sue conoscenze.

 

Con questo libro lei suggerisce un moderno Grand Tour, ma ad oggi può esistere ancora un modo di viaggiare analogo a quello dei gran turisti?

In un certo modo penso di sì. È vero che il dilagare degli strumenti tecnologici potrebbe far pensare che quel tipo di viaggio (e il viaggio in generale) non abbia più molto senso, ma il desiderio dell’essere umano di viaggiare e di recarsi fisicamente nei luoghi è insostituibile. L’impulso del muoversi credo sia inestirpabile dall’uomo.

Il libro si pone sulla scia di una lunga tradizione di romanzi di viaggio in Italia, da Montesquieu a Goethe, fino a Piovene e Ceronetti. A chi si è ispirato in particolare?

È verissimo, lei ha citato delle personalità che ho ben presente e che hanno nutrito in qualche modo il mio animo anche nello scrivere questo romanzo. Il modello di Goethe soprattutto, che ho nella mente da sempre.

L’aspetto più critico quasi di denuncia, presente in Piovene e soprattutto in Guido Ceronetti, fustigatore di brutture etiche ed estetiche, emerge a tratti anche nel suo libro. Ricordo il momento in cui David arriva a Firenze e dice: “è un susseguirsi di negozi di souvenir, pinocchietti e gelati. A questo si è ridotta Firenze?”. Forse bisognerebbe ripensare un turismo come quello che compie il protagonista del romanzo? Un turismo consapevole, colto, lento, fuori dalle solite rotte.

Sì, bisognerebbe farlo certo. C’è stata una transizione micidiale dal Grand Tour al turismo di massa, e noi studiosi invitiamo a tornare a quel tipo di viaggio, il libro stesso è una spinta in quel senso. Tuttavia è interessante notare come la parola turista derivi da tour; quindi il termine nobile e il termine diciamo così ignobile, sono uguali, perché il turismo nasce con quell’esperienza allora ancora esclusiva. Non si può tornare al Grand Tour, come non si può continuare a lungo con questo turismo di massa, delirante e divagante. Dobbiamo cercare di far appropriare al turismo di massa certe modalità di viaggiare proprie dei gran turisti. Questo credo che sia possibile.

Che è in fondo quello che fa David, il protagonista del libro, inizialmente molto frettoloso nelle sue visite e negli spostamenti, per rallentare poi il ritmo e uscire dagli itinerari consueti.

Esatto. David scopre ad esempio nel corso del suo viaggio l’archivio, un luogo in cui capisce che ci sono delle modalità di apprendimento che possono essere realizzate solo lentamente.

Una delle mete nel libro è Venezia, tappa imprescindibile ieri come oggi. La situazione della Serenissima è però alquanto critica, e leggendo un libro come Se Venezia muore di Salvatore Settis verrebbe quasi da pensare che non ci sia via d’uscita. Allora cosa fare?

Penso che gli intellettuali possano aiutare a governare e a gestire la malamministrazione. Una cosa orrida di Venezia è lo squilibrio dei livelli dell’accoglienza e della ristorazione, e lo squilibrio tra residenti e turisti. Io penso che un’amministrazione culturalmente alta possa intervenire su questo, cercando di garantire anche una certa qualità per ristoranti e alberghi, e regolare meglio i flussi turistici.

Suggerisce quindi un ruolo di primo piano degli intellettuali. Sarò volutamente provocatorio: ma esistono ancora? Già Elemire Zolla teorizzava l’Eclissi dell’intellettuale.

Esistono sì, io mi illudo di poter sostenere che la conversazione che stiamo facendo avviene tra due persone di questa tipologia. La risposta è già contenuta nella nostra registrazione. Esiste, a condizione però che le classi dirigenti politiche di questo paese si riordinino almeno un po' sulla base di questo impulso. Cosa che in effetti diciamo a partire dall’epoca della cosiddetta tangentopoli è stata fortemente offuscata. È vero che il rivoluzionamento delle classi dirigenti e l’insorgenza di movimenti politici eccessivamente sbilanciati rispetto alle ambizioni culturali di questo paese, hanno provocato una messa in ombra della forte presenza di una intellighènzia che può legittimamente comandare. Ma alla domanda che mi fa io rispondi di sì, esistono ancora gli intellettuali.

Nel libro torna spesso sulla frase: Roma quanta fuit, ipsa ruina docet (quanto grande fu Roma lo insegnano le sue stesse rovine. ndr). Oggi, girando per la città, il degrado è lampante, e forse neanche le ruina ci possono far capire l’entità del passato, in parte distrutto anche in tempi più o meno recenti (come nel secolo scorso). Forse, riprendendo una vecchia tesi che sosteneva anche Federico Zeri, Roma non sarebbe mai dovuta diventare capitale?

Le voglio raccontare una cosa. Sta per uscire un libro a cui sono molto affezionato sebbene non sia ancora pubblicato, perché lo ha scritto mia moglie, che è una narratrice e saggista. In questo libro si sostiene esattamente la tesi che lei ha appena enunciato, e cioè che Roma non doveva diventare capitale per come lo è diventata, poiché è stata invasa, distorta, brutalizzata e rovinata. Le dico che in effetti sono d’accordo. In fondo l’Ipsa ruina docet è sempre valido, certo una cosa che mi ha colpito ultimamente è come l’esigenza di una vita colta, cioè più consapevole, è venuta meno. Devo dire che ho notato una certa inconsapevolezza. Un disagio che provo verso l’amministrazione attuale è proprio l’inconsapevolezza, ed è questa che genera degrado. “Il sonno della ragione genera mostri”, dice la famosa acquaforte di Goya, e proprio in quell’immagine il personaggio dormiente si può leggere come il segno dell’inconsapevolezza.

In questo senso le amministrazioni ultimamente non hanno mai manifestato questo intento, uno potrebbe dire che non ci sono i fondi, ma la coscienza non ha bisogno di un finanziamento per potersi manifestare. Raccogliere l’insegnamento del passato, l’ipsa ruina docet, si può fare anche senza una lira!

Nessun pugna per te? non ti difende
nessun de’ tuoi? L’armi, qua l’armi: io solo
combatterò, procomberò sol io.

Dice Leopardi nel canto All’Italia, proclamandosi sconfitto ma nello stesso tempo combattente. E l’amministrazione attuale non può seguire le orme di Leopardi?

Noi studiosi, scrittori e professori lo facciamo, ma spesso siamo osteggiati da una classe dirigente che ci disprezza.

È vero, si è costruita una retorica contro gli “intellettualoni” e i “professoroni”…

Sì purtroppo c’è un disprezzo verso lo studioso e il sapiente (nel senso antico della parola), accentuato dal sovente ipocrita riconoscimento a parole.

Possiamo dire in conclusione che il viaggio, e questo tipo di viaggio da lei proposto nel libro, può essere un rimedio al degrado culturale di cui abbiamo parlato?

Certo! E sono molto lieto che lei legga il libro in questa chiave. Quindi la risposta è un sì convinto.