Charles Manson resta la Bestia, nonostante musica e groupie

 

Sono tempi interessanti, ma soprattutto ambigui. Tempi di clown psicopatici assisi su troni, di fanatici che li venerano e di studiosi che ce li vogliono spiegare, tra sociologia da supermercato e fascinazione. Lo dice il cinema col Joker e, cambiate le cose da cambiare, l’ultimo spettacolo in scena al teatro Trastevere.  “Chi è la bestia?”, chiede il titolone in locandina. “Manson vs Bugliosi”, dice il sottotitolo dello spettacolo, suggerendo che la risposta sta nel duello tra i due personaggi. Come se il pubblico dovesse scegliere, stile referendum, tra l’eccentrico pluripregiudicato e lo zelante magistrato.

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È una promessa di ambiguità l’ultima opera di Emanuele Bilotta, qui regista e scrittore, che prende spunto dal processo del 1970 contro Charles Manson, imputato per le stragi Tate\La Bianca, e conclusosi con la sua condanna a morte, pena poi commutata in ergastolo. Protagonisti della pièce teatrale sono Manson, l’avvocato di origini italiane Vincent Bugliosi, il pubblico ministero nel processo, Susan Atkins e Linda Casabian, due appartenenti alla “famiglia” dello Spahn Ranch (Hollywood) e partecipanti ai massacri orditi dal loro amante-mentore-guru.

Il Manson ben interpretato da David Capoccetti è belloccio, dotato di bel fisico e folta chioma chiara, sembra più un menestrello di Woodstock che la voce del demonio, strimpella la chitarra e intona continuamente Helter Skelter dei Beatles. È la sua doppiezza angelo-diavolo, l’affascinante sognatore con la passione della musica che si alterna al mostro feroce, il motore della storia. È lui, tra balletti e coltellate nell’aria, sguardi allucinati e ammiccamenti fanciulleschi, a tirare le fila contorte di una storia di follia e tristezza. Lo spettacolo va avanti tramite continui sbalzi spazio-temporali, che passano dalle interrogazioni del pm verso i singoli imputati ai diversi incontri fatali di Manson con le due ragazze (da lui sedotte e manipolate), dalle testimonianze delle due alla non confessione di lui, fino al verdetto finale.

Le domande del sempre composto dottor Bugliosi, interpretato da Alberto Brichetto e dotato dell’autorevolezza severa ma non spaventosa di un preside di scuola media, sono quelle di un qualsiasi padre di famiglia. L’avvocato è costretto ad attaccare ma è anche curioso di conoscere le cause dello sfacelo di una generazione che, sebbene in piccola parte, si fa sedurre da Manson e non sa distinguere il bene e il male, piombando nell’orrore. A rispondere al pm ci sono Susan Atkins e Linda Casabian, entrambe con la faccia e le movenze ora febbrili ora tetre di Ludovica Resta. La prima è una groupie di Manson, rappresenta una giovinezza di sbagli e miserie, preda di un uomo forte e manipolatore, scambiato per angelo, diventa assassina e serva sciocca del diavolo. Lei al processo è letteralmente un megafono dell’imputato, che tenta di fare assolvere in tutti i modi e per il quale potrebbe autodistruggersi, anche in sede giudiziaria. L’esaltatissima Atkins non pratica la banalità del male, ma l’abdicazione di ogni “io” in ossequio al suo guru-amante. Non è una efficiente burocrate del crimine, ma una povera sventurata che ha confuso una setta con una famiglia, la droga, il sesso e la violenza per giuste preghiere e un mitomane per un mito. Oggi per fortuna potrebbe essere al massimo una bimbaminkia vittima di un influencer. La Hamilton è un’altra storia, così cupa e dalla voce tanto bassa quanto quella dell’ex collega era squillante. Sebbene pure lei giovane naufraga dopo le tempeste della vita, con figlioletta a carico e uomini inaffidabili alle spalle, la Hamilton riesce per un pelo a scuotersi dal delirio della “Famiglia”, a riconoscere il male rappresentato da un coltello e dal massacro di una donna incinta, Sharon Tate, e ad avere una vita dopo Manson. Ci riesce immolando l’ex mito sull’altare della giustizia, inchiodandolo alla sua violenza, riportando lucidità, fatti e nomi utili alla condanna in un tribunale e su un palco annebbiato dai deliri e stacchetti comici di Charles e la Hatkins. È Linda con la sua confessione ad affossare il guro diabolico che si professava innocente. Eppure lui ci prova fino alla fine, con una non confessione monologo in cui si dichiara figlio del carcere, di un’America fragile e abbandonata, della violenza degli altri, dell’ipocrisia dei politici, dell’incomprensione di tutti. Una sorta di Joker, appunto. Presumibilmente un pazzo, certamente un pagliaccio, ovviamente un assassino. “Chi è la bestia?” è una domanda inutile, perché la bestia è Manson, mentre Bugliosi è un servitore dello Stato, qui alla fine pure privo di particolari sfumature. Ma il dubbio che bestiale fosse pure una certa giovinezza offesa, in preda a disgrazie e feroci illusioni in un paese che non a tutti concedeva il sogno promesso, è lecito e lo spettacolo ce lo mostra con il dualismo in rosa Hatkins-Hamilton.