Kobe Bryant in tre atti

Dopo l’annuncio della morte di Kobe Bryant sono stati pubblicati migliaia di articoli commemorativi.
E hanno tutti torto. E hanno tutti ragione.
Ignorando i beceri coccodrilli raffazzonati dai nostri geriatrici e calciocentrici giornalisti pennivendoli, tutte le persone che sono state toccate da Kobe – perché se parlavi di Kobe era Kobe, non era necessario aggiungere il cognome – hanno sentito il bisogno di commemorarlo, di condividere un opinione, un ricordo.
Perché Kobe Bryant ha lasciato un segno in una generazione.
E alla fine, come tutte le leggende, era di tutti.
Se avete intorno ai trent’anni, e avete toccato un pallone a spicchi, avete sicuramente immaginato di essere lui, avete visto il campetto come lo Staples Center e vi siete immaginati di segnare allo scadere il canestro decisivo.
Sono pronto a chiamare bugiardo e mentitore chiunque dica il contrario.
Chi non lo ha mai visto giocare, o non ha mai seguito l’NBA, dirà che si tratta del classico superficialismo dell’epoca social, in cui si condivide la morte della celebrità di turno per acchiappare qualche like. Diranno che si esagera, che in fondo era un multimilionario e che tanta gente muore ogni giorno nella completa indifferenza. Diavolo, c’erano altre 8 persone su quell’elicottero.
E avranno ragione. E avranno torto.
Ma per farvi capire, dovete capire chi è stato Kobe. Almeno, per un trentenne come me. Dio solo sa che non sono pronto per farlo.
Non mi dilungherò sulla storia della sua vita (per quello vi rimando al libro Showboat, la vita di Kobe Bryant di Roland Lazenby), né sulle sue statistiche, sui record infranti, sugli 81 punti in una partita, su quella volta che il tabellone, alla fine del terzo quarto, diceva Dallas Mavericks 61 - Kobe 62.
A quello penseranno altri, quelli che Kobe non l’hanno mai capito.
No, io quando penso a Kobe penso sempre a tre momenti distinti.
Ce ne sarebbero in realtà tanti altri, ma quelli che seguono sono i tre momenti che racchiudono quello che per me è, è stato, e sarà per sempre Kobe.
Potrei descriverli a occhi chiusi per quante volte li ho visti nella mia mente ma ho incluso dei link video per farvi avere un’idea.


1. “Ci ha costretti a vincere con la sua forza di volontà”

Il primo risale al 31 marzo 2012. Partita contro i New Orleans Hornets.
Kobe non segna dal campo per i primi tre quarti della partita. 0. Niente. Non è neanche marcato in maniera soffocante da degli onestamente mediocri Hornets. Anzi, spesso è completamente solo.
Semplicemente, la palla non vuole entrare.
Finirà la partita con un putrido 3 canestri segnati su 21 tiri presi.
Ma.
New Orleans 85 - Los Angeles 83 a 22 secondi dalla fine della partita.
La palla è nelle sue mani, Dio gliel’ha data e guai a chi gliela tocca.
Isolamento contro Jarret Jack.
Inutile che stia qui a farvela lunga. New Orleans 85 - Los Angeles 86. Vittoria e tutti a casa.
Nessuna sorpresa. Prima ancora che tirasse io, lui, tutto lo stadio sapeva già cosa stava per succedere.
Il suo allenatore storico, Phil Jackson, disse una volta di lui “he willed us to win”. In italiano il gioco di parole è intraducibile, ma suona come “ci ha costretti a vincere con la sua forza di volontà”.
Kobe, come vorrà farsi chiamare, è un Black Mamba. Il serpente più velenoso al mondo. Mortalmente pericoloso. E più lo metti alle strette più diventa pericoloso.

2. L’aeroplano

Il secondo momento che definisce Kobe, per come l’ho capito io, è Phoenix, 2010. Quell’anno i Lakers di Kobe vinceranno il titolo. Prima, però, devono battere i Phoenix di Nash e Stoudemire, duri a morire e in difesa una brutta gatta da pelare.
Siamo a gara 6. Se i Lakers vincono, è Finale.
Ultimo quarto. Poco più di due minuti alla fine.
Time-out.
Inquadrano il viso di Kobe. E’ posseduto. Totalmente concentrato. Il suo sguardo potrebbe tagliare il diamante. Non parla con nessuno. A vederlo, sembra di guardare una tigre in gabbia, negli occhi una promessa di morte quando, e non se, si libererà.
Phoenix è sotto, ma sta rimontando. Nash segna il -3 in uscita dal time-out. Palla ai Lakers.
2 minuti e 2 decimi di secondo, i Lakers non hanno costruito nulla. Kobe riceve palla e viene immediatamente raddoppiato.
Gli altri possono anche tirare liberi con sei metri di spazio, lui no, lui lo devi fermare. Perché per gli altri quella palla pesa, la rifiuterebbero. Lui no, lui la vuole.
Palleggio, tiro cadendo all’indietro con due uomini addosso. Solo rete.
La faccia resta sempre quella, di un uomo che vuole vedere il suo avversario non solo morto, ma squartato. Non c’è nessuno spazio per la pietà.
Poco più tardi, 50 secondi dalla fine della partita, le squadre sono 105 a 100 per i Lakers.
Possesso decisivo, con un canestro la rimonta diventa praticamente impossibile. Questa volta la difesa per Kobe è l’anticipo, l’anticipo disperato. “Facciamo di tutto per non fargli ricevere il pallone, e se proprio lo deve ricevere, che lo riceva il più tardi possibile”, pensano gli avversari.
Kobe riceve la palla. All’attacco dei Lakers restano 5 secondi. Una finta, poi tira. Grant Hill, il suo difensore, gli sta nella maglietta. Una difesa tecnicamente impeccabile, da sogno. In qualsiasi altro momento, contro chiunque altro, avrebbe funzionato.
Ma niente e nessuno può toccare Kobe in quel momento. Due punti.
Il collo dei Phoenix Suns è definitivamente spezzato.
Kobe, che sa di aver vinto, lascia finalmente andare la terribile concentrazione che lo aveva tenuto in piedi sino ad allora e inizia a fare l’aeroplanino in mezzo al campo. Giuro.
Immediatamente prima, in un momento di sport meraviglioso, subito dopo aver segnato il tiro decisivo, dà una pacca sul culo dell’allenatore avversario, beffardo.
E l’altro sorride, un po' perché ha appena assistito allo straordinario, un po’ perché si sente come un uomo che tenta di fermare il vento.
Kobe è anche questo. E’ un gatto, elegante e crudele.
E’ uno showboater, cioè uno che dà spettacolo, che ama mettersi in mostra.
E’ guascone. E’ arrogante. E’ intoccabile.
Molti sentono la chiamata della luce, ma pochissimi riescono a rispondere.
Kobe è il favorito della luce.

3. L’ultima partita

Il terzo momento che mi viene in mente quando penso a Kobe – e in questi giorni ci penso quasi quotidianamente, e devo ricordarmi di quello che è successo, perché continuo a pensare che non sia vero – non è un singolo tiro, o una singola azione. E’ un’intera partita, l’ultima.
E’ il 13 aprile 2016.
Dopo 20 anni tondi di NBA, il cuore di Kobe è giovane, ma il suo corpo è molto più vecchio dei 38 anni indicati sulla sua carta d’identità.
Tra il suo esordio, nel 1996, e questa partita, tra tanti trionfi e tante sconfitte, ci sono stati anche 22 infortuni, alla spalla, ad entrambe le caviglie, ad entrambe le ginocchia, all’indice della mano con cui tira e che non ha mai fatto guarire correttamente perché la guarigione completa avrebbe richiesto un’operazione durante la fase cruciale della stagione. E quindi? E quindi ha cambiato modo di tirare, nonostante in qualsiasi scuola di basket per bambini si insegni che l’indice è il dito più importante perché è l’ultimo a lasciare il pallone e ad indirizzarlo quando si tira.
Il suo corpo sta andando in pezzi. Non riesce più a saltare un giornale, non ha più le gambe. La sua micidiale velocità lo ha abbandonato. Non ha più fiato.
Il suo corpo lo tradisce.
L’ultimo anno, ma sarebbe più corretto dire gli ultimi tre o quattro, ha continuato a giocare solo grazie alla sua incredibile comprensione del gioco. Riesce, ed è evidente anche a chi non ha mai giocato, a leggere due, tre movimenti in avanti in attacco.
Ma non è più il Black Mamba. Non può più essere il Black Mamba.
E’ la sua ultima partita. Si chiude un’epoca.
Ancora una volta, la luce chiama il suo prediletto.
Segna 60 punti.
13 negli ultimi 2 minuti e sedici secondi.
Segna il tiro decisivo.
E’ stato qualcosa di incredibile.
Il più grande esempio di mente che si impone sulla materia che io abbia mai visto.
Ha letteralmente costretto il suo corpo e la palla a fare la sua volontà. Soprattutto negli ultimi minuti, quando ormai non ha più forze. È evidente, non puoi credere ai tuoi occhi.
Non ha senso, le gambe non hanno più spinta, è marcato, ma non può fare a meno di segnare.
Kobe, in una notte indimenticabile, ha trasceso la sua vulnerabilità umana per lasciare l’ultimo segno, l’ultimo morso ed è trapassato nella leggenda.
Se lo vedesse Nietzsche, scoppierebbe a piangere.
Ma non si può, in quel momento, non essere commossi dal suo sforzo, non si può non amarlo. Anche i suoi avversari non possono farne a meno.
E’ per questo che era di tutti.
Alla fine della partita, dirà “Mamba out”.
Si, Mamba out.

Ora che se n’è andato, in un modo così improvviso, brutale, ha lasciato un vuoto nel subconscio collettivo.
Ha lasciato un vuoto dentro di me, che l’ho ammirato per tanti anni e che sanguino gialloviola per causa sua.
Dopo averlo visto imporre il suo dominio per così tanto tempo sul parquet, dove è stato onnipotente, il cervello non riesce a razionalizzare quanto accaduto.
Una storia di luce si è spenta nel buio improvviso: la luce ha perso il suo favorito.
Kobe non c’è più.
Kobe, che per me era sublimato nella volontà di superare i propri limiti, nel bruciante desiderio di vittoria, se n’é andato.
Eppure non è stato il più forte di sempre, the greatest of all time, the G.O.A.T., il caprone. Neanche ora, che sto riguardando tutte le clip con le sue azioni, riesco a pensarlo.
Un iniziato del gioco, si. Nell’olimpo dei più forti, sì.
Il più forte di sempre? No. E lo sapeva anche lui.
Ma non è questo il punto.
Il punto è che Kobe è un eroe proprio perché non era il più forte.
Kobe adorava Michael Jordan. Kobe ha sempre avuto un solo obiettivo.
Superare Jordan.
Quello che per noi ordinari esseri umani sarebbe stato un semplice sogno, per lui era un’esigenza. Era il motivo per cui si alzava la mattina.
Chiedete a chiunque lo abbia conosciuto e vi parlerà della sua etica del lavoro.
Ossessivo.
Ogni giorno tiri, movimenti senza palla, filmati, allenamento.
Ogni giorno che Dio manda in terra Kobe pensava alla pallacanestro.
Perché non poteva concepire di perdere. Non poteva tollerarlo.
Kobe era l’uomo che cerca di costruire l’utopia.
Paradossalmente, era lui l’uomo che cercava di fermare il vento.
Alla fine, era uno che ha avuto il coraggio di sognare, e la forza di provare a realizzarlo. Quando non ci è riuscito, dopo una carriera ricolma di gloria, si è assunto il peso della colpa dei sognatori, ed è venuto, io credo, a patti con sé stesso.
E questo è il suo lascito più grande.
E quando è arrivata la fine della sua carriera, era riuscito a focalizzare la sua ossessione su altre avventure.
Ha vinto un Oscar.


Unico, ovviamente, tra tutti gli ex giocatori NBA.
Perché di Kobe ce ne poteva essere solo uno.
Kobe era Kobe.
Kobe era un Black Mamba, un Mamba Nero.
Un serpente letale.
Che più lo metti alle strette più diventa pericoloso.
Kobe non si arrendeva, non perdonava, e non smetteva mai di combattere.
Per essere sicuro di averlo ucciso, dovevi staccargli la testa.
Come con i serpenti.
Oppure, vigliaccamente, dovevi far precipitare il suo elicottero.
Solo così. Solo così potevi pensare di fermarlo.