Bob Dylan e il Never Ending Tour 2018: Il Passato Che Rivive Nel Presente

 
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Data: 3/04/2018, 4/04/2018, 5/04/2018

Luogo: Auditorium Parco Della Musica, Roma

Genere: Folk, Rock 'N' Roll, Swing, Jazz

Durata: 105 m

 

Lo scorso tre, quattro e cinque aprile, la carovana del “Never ending Tour 2018” di Bob Dylan proveniente dalla penisola iberica ha sostato a Roma, aprendo una serie di concerti nell’amato stivale. La tripletta di esibizioni ha avuto il suo teatro nell’elegante cornice della Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco Della Musica.

Un palco sobrio, con piccole lanterne verticali ad emettere luce fioca e gli strumenti disposti semicircolari rispetto al più avanzato e sbilenco pianoforte a coda, prediletto compagno di Dylan degli ultimi periodi.

Questo perché “I tempi stanno cambiando”, anzi sono cambiati, dunque aspettarsi di vedere il menestrello degli anni ’60 armato di chitarra acustica e armonica quasi a nascondere la bocca, sarebbe una forzatura. Lo troverete allora dietro ai tasti d’un piano, seduto durante le melodie di grandiose ballate, in piedi nei momenti topici di riff vorticosi.

L’ultima apparizione italiana del cantore di Duluth risale a tre anni fa. In questo arco temporale si è dedicato alla registrazione di qualche album in studio e, nel 2016, ha vinto il Nobel per la letteratura, per aver imbevuto di poesia la musica americana tradizionale.

“Di acqua sotto i ponti ne è passata, ed anche tante altre cose” cantava in Things Have Changed il vecchio Zimmermann. E con questa simbolica canzone, che gli valse l’Oscar nel 2001, il concerto ha inizio. Il compromesso però è sempre il solito, ossia che ad ogni tour gli arrangiamenti cambino, evitando l’effetto karaoke per ascoltare quelle parole rimaste incorrotte nei decenni da una sola voce, la sua.

L’effetto è l’assottigliarsi tra passato e presente; improvvisamente lontananza è vicinanza. Don’t think twice, it’s allright, brano del ‘63, in una versione oscillante tra lo swing ed il folk, proietta il pubblico al Greenwich Village dove un Dylan neofita muoveva i primi passi e suonava davanti a studenti ed artisti a notte inoltrata, e la sua musa dell’epoca, Suze Rotolo, ispirava i suoi componimenti.

Simple Twist Of Fate e Tangled Up In Blue ci fanno balzare al ’75, anno di Blood On The Tracks e dei preparativi del Rolling Thunder Review, lunghissimo tour che l’artista intraprese non solo con la sua band, ma anche con altre figure di spicco musicale e letterario, come Joan Bahez e Allen Ginsberg.

Desolation Row, contenuta in Highway 61 Revisited, secondo disco della trilogia elettrica che divise i fan più accaniti, nella sua disarmante bellezza nei crescendo a fin di strofa, ci fa passeggiare per undici minuti nei vicoli cupi in cui Cenerentola spazza la strada dopo il passaggio delle ambulanze, e la gente deve scegliere se schierarsi dalla parte di Ezra Pound o T.S. Eliot.

 
 

La scaletta si sussegue velocemente, senza l’ombra di una pausa, seguendo un’impronta swing, rock ‘n’ roll e jazz. E se non invecchia, allora è anche folk. Steel guitar e violino arricchiscono ancora di più le composizioni, donando loro un abito onirico. Ai brani tratti dai più recenti Time Out Of Mind e Tempest si affiancano, lungo questo treno musicale che viaggia su cinquant’anni di storia della canzone, alcune cover di tradizione Usa, come Melancholy Mood e Autumn Leaves, eseguite lontano dal pianoforte, in piedi e in autentico stile crooner.

Dopo diciotto canzoni e un’ora e mezza di concerto tutto d’un fiato, il congedo, unica vera pausa prima della doppietta finale. Rientrato con la band, Dylan incanta un’ultima volta il pubblico eseguendo la profetica Blowin' In The Wind, il famoso testamento del folksinger in una versione intimissima al piano, seguita dalla conclusiva e marziale Ballad Of A Thin Man.

La voce roca e impolverata, di quella polvere alzata ai bordi delle autostrade americane e delle valli di Durango. Gli occhi di chi ha incrociato gli sguardi di Martin Luther King, Andy Warhol, Muhammad Ali, Johnny Cash, Giovanni Paolo II e Obama. Un Nobel, un Oscar, un Pulitzer alla carriera. Chissà cosa vuol dire essere Bob Dylan. Ma come egli stesso confidò al suo amico scrittore Larry Sloman:

“Bhè e come è stato?”

“Come è stato essere Bob Dylan? Vorrei proprio saperlo”.