Live immortali: quattro concerti da ricordare
Dire Straits: Alchemy (1984)
Nel 1983 i Dire Straits non hanno certo più bisogno di alcuna presentazione. Ben saldi nell’Olimpo del rock, raggiunto con dischi iconici quali Making Movies e l’omonimo Dire Straits, Mark Knopfler in giacca rossa, polsini e immancabile fascetta sulla fronte, arma le tre dita sulla Fender per stupire e infuocare il pubblico del teatro Hammersmith Odeon di Londra.
Seguito dai prodi membri della sua ciurma, la band dimostra come il live sia il loro habitat, presenziando sulla scena impeccabilmente ed evadendo da ogni schema, costruendo un ambiente sospeso in un tempo mitico.
Tra virtuosismi non solo chitarristici e brani raddoppiati della loro lunghezza naturale, passano in rassegna canzoni miliari: l’introduttiva Once Upon A Time In The West ci proietta in un universo sonoro indimenticabile, e i quattro rintocchi di charleston avvertono il pubblico che assisterà di lì a poco alla più bella versione della celebre Sultans of Swing, in 11 minuti di pura trascendenza musicale. E poi l’amore di Romeo and Juliet, il basso indagatore di Private Investigations e l’epilogo strumentale di Going Home, con sax e chitarra che amoreggiano sulla via verso casa.
Per coloro che non hanno potuto godere della musica dei Dire Straits dal vivo, Alchemy è certamente un modo per rimediare. Anche perché questo doppio live album non ha subito ritocchi in fase post produttiva.
Bob Dylan: Hard Rain (1976)
Le idee di Dylan erano chiare dalla prima ora. Pubblicato il lavoro più importante dei suoi anni ’70, quel Blood On the Tracks che sarà nel tempo disco d’oro prima e triplo platino poi, era necessario che il menestrello tornasse in tour in grande stile, perché da troppo assente su un palco, evitando sordina e sedentarietà.
Il rumore fu quello assordante del tuono, che rotolava nell’aria ed espandeva la sua eco da Ovest verso Est. Dal 30 Ottobre 1975 al 25 Maggio 1976 prende vita il Rolling Thunder Revue, una carovana di musicisti e poeti nomadi che solca orizzontalmente e verticalmente l’America, sostando di città in città per un totale di 57 concerti tra teatri e stadi. Questo vagabondaggio musicale avrà testimonianze scritte e filmate, poiché tanti furono i libri, le interviste riportate su carta e i video in cui Dylan indossa cappelli, corone floreali o cera clownesca sul volto.
Hard Rain è invece la testimonianza audio, che cattura uno degli ultimi show di questa incredibile epopea. Affiancato da musicisti del calibro di Mick Ronson (chitarrista già al servizio di David Bowie), Joan Baez e Ramblin’ Jack Elliott, il cantore del Minnesota incanta le genti attraverso le sue parole profetiche, urlate da un’ugola e da corde vocali tirate a lucido. Stravolgendo come suo solito arrangiamenti e linee melodiche, Zimmermann propone una versione di Shelter From The Storm che rasenta la perfezione, grazie all’incisività del cantato, proiettando il pubblico in paesi sperduti e territori mistici.
Nei palchi invasi di tappeti, turbanti a coprire il capo, chitarre blues, bassi, violini e percussioni che piangono note, si assiste gradualmente ad una piccola pagina di storia della musica. Dalla Rivista Del Tuono Rotolante è tutto.
Pink Floyd: Live At Pompeii (1972)
Il regista Adrian Maben convenne con i Pink Floyd per un concerto filmato e registrato senza pubblico. Alla ricerca di suoni puri e limpidi, non inquinati da alcuna sporcatura acustica, e di una scenografia millenaria, la scelta del luogo ricadde su Pompei.
Prima del nefasto 79 d.C., quando il magma del Vesuvio ricoprì l’antica città di lapilli e cenere, nell’anfiteatro romano i pompeiani assistevano a giochi circensi e sanguinose lotte tra gladiatori. In quella stessa arena, dal 4 al 7 Ottobre del ’71, i Pink Floyd, collegati gli strumenti agli amplificatori, incastonarono una performance live prodigiosa che, al pari di colonne, mosaici e rovine, rimane anch’essa patrimonio prezioso del sito archeologico.
La macchina da presa, unico spettatore della messa in scena, immortala immagini suggestive ed anacronistiche, con Gilmour, Waters e Wright a petto nudo sotto il cocente sole del sud, mentre un Nick Mason baffuto si porta al centro della batteria a due casse. Sugli spalti vuoti e nelle labirintiche viuzze di Pompei, tra gli sbuffi di sorgenti sulfuree si espandono le note psichedeliche di Echoes, nelle sue due parti, e di One Of These Days.
A Saucerful Of Secrets, in una versione caricata di ulteriore sperimentalismo, consegna all’iconografia musicale un’altra immagine simbolo: Roger Waters che, durante i deliri chitarristici di Gilmour e l’affondare di Wright sui tasti, percuote violentemente il gong con la mazza, quasi fosse “l’ascia di Eugene”.
Mike Oldfield: Tubular Bells II Live At Edinburgh Castle (1992)
Dal gong dei Pink Floyd alle campane tubolari di Mike Oldfield. Quando pubblicò Tubular Bells, il nostro Mike aveva vent’anni appena. Compositore già sopraffino con sole venti primavere alle spalle, il suo nome spopolò quando, in quello stesso anno (1973), il regista William Friedkin volle come tema principale per la colonna sonora de L’Esorcista proprio Tubular Bells.
19 anni più tardi, nel 1992, vede la luce Tubular Bells II, che si propone come una versione più edulcorata nei suoni e scorporata in 14 tracce, che sostituiscono le due lunghissime suite dell’antecedente. Sempre nel ’92 Oldfield inizierà un tour che lo vedrà vagare per l’Europa. E in Scozia, nella meravigliosa cornice del castello di Edimburgo, delizierà i presenti con la riproduzione per intero del secondo capitolo “tubolare”, coadiuvato da un’egregia orchestra.
Dopo aver scandito le note d’apertura di Sentinel sulla tastiera, l’artista sfugge un istante dall’inquadratura per ricomparire qualche attimo dopo con la sei corde sottobraccio, rispolverando assoli impeccabili. Con cori ad aumentare il pathos già altissimo, si susseguono le varie Darkstar e Clear Light, arrivando a The Bell, dove una voce rompe la sola strumentalità, introducendo gli strumenti che risponderanno alla chiamata con una valanga di note: “Grand Piano!”, “Glockenspiel!”, “Bass Guitar!” e così fino al “And Tubular Bells!”, con Oldfield a martellare le barre metalliche del sacro strumento, lasciando amplificare dal palco verso la città il suono medio-acuto inconfondibile delle campane tubolari.
In un’ora e cinque minuti di assoluta perfezione, e con fuochi pirotecnici in chiusura, l’artista britannico apre una finestra sul suo panoramico progressive rock.