Anna Maria Ortese – "In sonno e in veglia"

 
 

Titolo originale: In sonno e in veglia

Casa editrice: Adelphi

Edizione: 1987

Pagine: 182

Scrivere di Anna Maria Ortese senza accennare o tener conto del suo vissuto, è impresa faticosa. Mi viene da pensare “quasi impossibile”: come per Pessoa, anche per la Ortese (“il male peggiore è di non saper dimenticare la presenza metafisica nella vita”)

Vasto è il mondo della Ortese, nonostante la sua posizione marginale. È forse proprio per questa ragione che il suo è un mondo scavato nel profondo, un universo sotterraneo, che emerge per l’attenzione, la cura e la pulizia delle parole, pe(n)sate tutte per ogni singola proposizione. Parole leggiadre, fiere, terribili, bellissime, ma soprattutto vive testimoni di un’intera esistenza d’intenso e solitario amore e tacita, tragica disperazione. 

Il volume In Sonno e In Veglia, pubblicato da Adelphi nel 1987, è una raccolta di dieci scritti che l’autrice ha composto in diverse epoche della sua lunga vita di raminga. 

Racconti che di racconto non hanno che una magnifica veste. Si tratta, infatti, di pagine di largo respiro in cui dissertazione filosofica e Poesia si fondono e fanno luce sull’ invisibile. Perché invisibili sono i “minori”, gli svantaggiati, i poveri, tutti quelli che non possono star dritti, che sono inclinati, che non hanno identità e che pure restano umani.

Leggendo, sembra ci si inoltri dentro la cava di un gigantesco albero umido e fresco, una sorta di altro mondo, fatato e sublime. Ed è proprio dentro gli angoli più acuti che abitano i personaggi della Ortese: creature luccicanti, folletti, vecchi bambini, principi e dame, animali che comunicano attraverso insolite formule magiche. Leggere questo volume è come indossare una lente per sbirciare la vita dentro questo gigantesco rifugio metafisico e segreto, al limite del sogno (o forse della realtà), raggiungibile con la sola immaginazione, quella dell’autrice e quella del lettore più audace. 

Questi suoi personaggi non hanno la pretesa di essere. Furono (sono esistiti nei ricordi tra sonno e veglia dell’autrice) e, come lei stessa scrive, indi sono.  

Sono infatti lo sguardo e la mente della Ortese a tessere le fila di questo che ho chiamato albero. Il tessuto dei racconti è l’anima stessa della penna scrivente, il lavoro appassionato e sofferto dell’autrice, il cui genio pare abbia muscoli e polmoni, tanto è attento e ricettivo. 

E discreto. Sì, perché la Ortese è stata un’autrice acuta e consapevole, ma con la terza elementare. I toni dell’intero narrato sono delicati, somigliano a un sussurro, assumono le sembianze di silenziose preghiere rivolte affinché ci si assolva per i dubbi proposti.

La cultura stessa, dunque, il linguaggio, la morale, la famiglia, tutto l’umano e il reale vengono trattati e messi in discussione attraverso l’espediente del sogno, dell’irreale, del dubbio (del magico?).

Rare, infatti, le relazioni concrete. L’ultimo brano ne è un esempio. Si tratta di un’intervista, un esercizio di stile. Meraviglioso, perché la forza della scrittura di quest’autrice è linfatica. E lo è sempre, in qualsivoglia forma di narrazione adottata. 

Quelle della Ortese, con le sue creature (e creazioni), non sono che storie d’amore che si consumano sulla pagina intrisa di infinita compassione.

Al lettore non resta che affidarsi al cuore. Perché è del cuore che si ha bisogno per entrare nelle dieci porte che si affacciano sul mondo della Ortese, per conoscerne il rifugio, indovinarne la vita. 

Media Critica e Pubblico*: 8/10

Gradimento: 9/10

*v. fonti in calce

altre recensioni

Goodreads (4/5)