L'Amletico

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Una Tigre a Khajuraho

Diciamo subito ciò che Khajuraho non è.

Non è il luogo in cui è possibile ammirare le statuette erotiche che ornano le facciate delle decine di templi sparsi intorno alla città e che sono, è inutile negarlo, una delle attrazioni che quel luogo offre alle migliaia di turisti che lo visitino. O meglio, quelle statuette meritano di essere ammirate ma per una ragione che la massa dei turisti, in genere, ignora. Questa ragione è che esse sono l’espressione di una visione della vita che a noi occidentali è ignota. Una visione ampia, totale viene da dire, in cui rientra ogni aspetto del nostro stare al mondo, anche quello che quelle statuette evocano.

C’è un’altra cosa da dire prima di chiudere il discorso sulle statuette che, rappresentando tutti i momenti della vita, conferiscono un significato totalizzante ai bellissimi templi che, insieme a Luisa, ho avuto la fortunata occasione di visitare durante il nostro ultimo viaggio in India.

Senza di esse, quei di per sé splendidi templi non sarebbero la meraviglia che sono. Viviamo nel mondo di Internet in cui si può sapere rapidamente tutto e mi sembra quindi superfluo ripercorrere qui la genesi di quei templi, quando e perché sono stati edificati, la sottostante “ideologia” e la simbologia attraverso cui essi comunicano.

Ciò che Internet non può dire, e che un racconto di viaggio può invece autonomamente trasmettere, è l’emozione che nasce dallo stare davanti a loro, in silenzio, lasciandosi catturare dallo “stupore” che essi riescono a suscitare.


Ma Khajuraho è anche molto altro. Per noi è stata l’occasione di incontrare Swami Ganga, il coinvolgente proprietario dell’albergo dove alloggiavamo che non a caso si chiama Hotel Harmony; non a caso in quanto punto d’incontro di un’umanità fortemente votata alla ricerca di una dimensione armoniosa, intima, di quell’angolo di India. Un personaggio particolare. E’ stato amico - e ora ne è convinto seguace - di Osho, il controverso predicatore passato dall’insegnamento in una periferica università indiana alla creazione di una personale dottrina di piena libertà e consapevolezza che, nel post-sessantotto, ha avuto un momento di grande ascolto anche negli Stati uniti dove, per complessi motivi, è però incorso in una dura repressione da parte del Potere.


Per noi Khajuraho è stata anche l’occasione di incontri “minori” con persone apparentemente, solo apparentemente, irrilevanti capaci di raccontare storie uniche nella loro normalità.

Il cinquantenne di Agrigento il cui karma lo aveva condotto in sfaccendata peregrinazione per l’India saldamente installato sulla linea di confine tra saggezza e follia, che forse affogava nella sua logorrea rivolta certamente a se stesso il rimpianto, chissà, di un mancata carriera universitaria o, forse, di un fallito concorso alle Poste.

Il commerciante perfetto padrone di una gamma incredibile di lingue, tutte però limitate a un fraseggio comprensivo delle sole domande e delle sole risposte utili a piazzare le sue stoffe ai turisti di passaggio. Qualcuno che sta assecondando con il suo sommario linguaggio un desiderio di appropriarsi del tuo denaro allo stesso modo in cui tu, con il tuo sommario sguardo, stai assecondando un desiderio di appropriarti dei suoi millenni di storia.

Una moltitudine di ragazzi e ragazze che, prima di superare come da copione la soglia della normalità che li porterà ad accedere in patria alla sospirata sfera del precariato, vagano per le strade dell’India riproducendo, in rigorosi abbigliamenti d’epoca, un ormai consumato rito di libertà tratto da qualche nostalgico racconto dei loro genitori.

Ma torniamo a Khajuraho. Una lunga, trafficata strada piena di piccoli alberghi e ristoranti (i grandi resort sono nei dintorni e sono tutta un’altra storia) in cui vaga una folla di gente senza una vera meta fianco a fianco di animali anch’essi in movimento senza meta.

A proposito di animali, il luogo comune da noi più diffuso riguarda la sacralità delle mucche. Quel luogo comune che fa dire, a non pochi purtroppo, “sono così poveri e si permettono di non mangiarsele!”. Poi, vai lì, cerchi di capire, e ti rendi conto che le cose stanno in tutt’altra maniera, che ogni apparente stranezza (anche le nostre stranezze, peraltro) è spesso la risposta - non sempre l’unica possibile, questo è vero, ma comunque sempre una risposta ragionevole - che si cerca di dare un concreto problema.

Come ciò attenga anche alla sacralità delle mucche non può essere tema di una breve cronaca di viaggio. Ciò che si può dire è che per saperlo bisognerebbe andare lì, ma andarci non soltanto per fotografare quelle mucche ma per capire come mai esse stanno tranquillamente camminando al tuo fianco sulla strada principale. Per Via del Corso o Via Montenapoleone, tanto per capirci.

Il titolo di questo racconto fa riferimento a una tigre. Questo perché, uscendo da Khajuraho, si incontra a non molta distanza quella che loro chiamano giungla ma che una giungla non è. Non è neanche una foresta come noi la intendiamo. E’ un mare di alberi fra i quali, volendo, si potrebbe anche facilmente passeggiare. Nulla di più. La chiamano giungla perché insieme a coccodrilli, cervi, gazzelle, scimmie, cinghiali, facoceri e chissà quali altri animali, vi abita, da padrona, la tigre. E una tigre non può vivere che nella giungla.

Sono rimaste in poche - una cinquantina, così dicono - ed è molto difficile incontrarle anche se sono presenti in modo assolutamente invadente nella mente di chi va lì per vederle. Io non ci sono riuscito. Eppure, sull’aereo che mi stava riportando a casa, ruminando questo mio viaggio in India, l’immagine che più di ogni altra mi tornava alla mente, delle molte dalle quali mi sono lasciato invadere, era quella della tigre che non sono stato capace di incontrare. Se è vero, come dice Michel Onfray nel suo Filosofia del viaggio che “sognare una destinazione significa obbedire all’imperativo che parla in noi con voce straniera”, devo concludere che ciò che in questo momento della mia vita mi ha spinto in India e mi ha fatto desiderare di udire il ruggito di quella tigre è stato il desiderio di un nascosto ruggito che vorrei ancora sentire dentro di me.