L'Amletico

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Un opuscolo illustrato contro i femminicidi. Ma dove si riconosce la violenza nelle immagini?

Dopo l’ennesimo femmicidio avvenuto in Italia, con l’assassinio di Giulia Cecchettin, il ministro Nordio ha annunciato una misura d’eccezione per contenere il dilagare del fenomeno: un opuscolo con grafica molto comprensibile per riconoscere i cosiddetti “segnali spia”. Le possibili vittime, in questo senso, riconoscendosi rappresentate in delle storie – presumibilmente stereotipate – avrebbero maggiori strumenti per emanciparsi e difendersi dall’aggressore. Parlare un linguaggio diretto è essenziale in molti casi, specie quando ci sono di mezzo delle vite. Eppure ogni storia è diversa, anche quando la matrice culturale è la medesima, per questo articolare la complessità risulta una soluzione paradossalmente più immediata e convincente dell’appiattimento paternalista di chi pensa che basti una ricetta-panacea per debellare un fenomeno così capillare e pervasivo. Allora davanti a chi, come il ministro, ripone questa fiducia nel potere delle immagini, occorre chiederci in che modo queste dialogano con la violenza, e soprattutto quanto la rappresentazione della violenza sulle donne risulta un campo, oggi più che mai, problematico.

 

Per tutti e per nessuno. Il rischio della semplificazione.

 

Dietro l’idea di Nordio c’è un presupposto, o un preconcetto, ancora più semplice: le figure sono immediate, le illustrazioni servono a chi non ha la pazienza (e forse addirittura il retaggio culturale) per leggere. Questa strategia è un qualcosa che vedevamo già nella cultura controriformista del secondo Cinquecento, dominata dalla retorica tridentina e gesuita che prescriveva cicli pittorici nelle chiese della penisola dotati di narrazioni esplicite ed edificanti, adatte al popolo analfabeta. Ma, ancora una volta, se la volontà politica può essere lineare, nessuna traduzione in immagine è mai da dare per scontata, perché gli effetti possono essere imprevedibili, o semplicemente indesiderabili. Una prima, rischiosa, deriva è la banalizzazione. A un certo punto, quando non c’è profondità nel racconto, si ripete “sempre la stessa solfa”, un leitmotiv che si pensa di conoscere, con la realtà che impercettibilmente si allontana dalla coscienza. E allora, appena il ricordo dell’ultima violenza mediatica si fa meno vivido, prende forma la freddezza, l’apatia dilagante. Per questo è importante dare una voce a chi ha subito la violenza, dare un volto a chi ha rischiato di perderlo, o a chi indirettamente può testimoniare tutto questo, dando spazio a ciò che di più scomodo questa eredità ha da offrirci, senza edulcorare nulla.

Le dichiarazioni della sorella della vittima, Elena Cecchettin sono molto puntuali. Invitano a considerare l’assassino Filippo Turetta non un mostro, nella classica opposizione manichea e un po’ favolistica che spesso va per la maggiore nel dibattuto pubblico, ma come un “figlio sano del patriarcato”, spalancando un livello di complessità ulteriore alla bidimensionalità illustrativa dell’opuscolo. Si tratta di un appello che incontra l’ondata di viscerale indignazione che è esplosa in questi giorni, in cui tantissime e tantissimi si sono esposti forse come mai prima d’ora. La rabbia è ottimista, se c’è il fuoco che incendia gli animi allora vive la speranza. Eppure c’è sempre bisogno di benzina per tenerla viva, e il dialogo ha un ruolo importante in questa vicenda. Non solo mettere insieme persone, creare ponti e abbattere barriere, ma anche, e soprattutto, decostruire, per trasformare finalmente anche il modo in cui si guarda e racconta la violenza sulle donne.

 

Abbiamo già abbastanza violenza

 

C’è molto da indagare prima di giungere ad affrettate conclusioni. Lo si deve a tutte le donne uccise, più che alle generiche vittime che l’opinione pubblica omologa, o la vittima “per eccellenza” che talvolta finisce per incensare. Eppure, davanti alla gravità di una crisi culturale che accompagna la nostra società da secoli, che vede anche le nuove generazioni prigioniere di schemi oppressivi e dialettiche di potere, il governo parte con una misura semplice, se non semplicistica, che mira unicamente a “mettere una toppa” per dare un segnale, più che altro simbolico, alla nazione. L’escamotage è quello di utilizzare le immagini per prevenire la violenza, supponendo che questo male sociale possa essere chiaramente visualizzabile. In effetti, la nostra società si sta evolvendo favorendo sempre di più i contenuti visivi al posto di quelli verbali (passaggio che possiamo individuare anche fra TikTok e Instagram), ma c’è un problema: non solo gli abusi fisici e le torture psicologiche sono dei fattori complessi da individuare a occhio nudo, in assenza o in presenza del presunto giusto distacco emotivo, ma anche le immagini che raccontano queste storie spesso nascondono un oscuro retaggio dietro l’apparenza cristallina. Quindi perché commissionare nuove immagini per mostrare la violenza quando basterebbe acuire lo spirito critico, e conseguentemente la consapevolezza, per riconoscere la violenza che abbiamo già sotto agli occhi?

Selvaggia Lucarelli e Serena Mazzini non solo svolgono un prezioso lavoro per denunciare personaggi e influencer che, attraverso una posticcia posa femminista, lucrano su vicende come l’omicidio di Giulia Cecchettin (addirittura promuovendo gioielli a tema “amore tossico” o libri di self help per combattere i “narcisisti”, questo appellativo sempre più abusato e logoro), ma recentemente, attraverso una discesa negli abissi di TikTok, hanno mostrato anche come al posto dell’opuscolo illustrato esistono tantissimi video, fatti da giovanissimi, che rivelano l’esistenza un vero e proprio manuale vivente, arrivato “dal basso”, senza la mediazione di chi “dall’alto” vorrebbe stemperare la gravità della situazione. Ma, anche davanti alla scena di un ragazzino malsanamente geloso che censura la minigonna della propria fidanzata, non possiamo pensare che certi modelli culturali, dalle origini remote, non abbiano attecchito, arrivando dalle serie tv attraverso il cinema, e prima ancora dalla letteratura, o in maniera trasversale dall’arte.

 

Donne (s)oggetto

 

Specialmente in Italia, o in generale in Europa, l’immaginario offerto dal patrimonio artistico sta ancora alla base della nostra identità. Le donne sono sempre state un soggetto che in pittura esprimeva tantissimi significati, anche contradittori, per rivendicare spesso una semplice cosa: il controllo su di esse, sul piano fisico, morale, spirituale.

La virtù femminile dell’antica Roma viene emblematizzata dalla figura di Lucrezia, che per lavarsi dall’onta dello stupro trova attraverso il suicidio una disperata forma di espiazione. Questo soggetto iconografico ritornerò nell’arte moderna, a volte semplicemente citato all’interno di un quadro, come nel caso del Ritratto di gentildonna nelle vesti di Lucrezia (1533) di Lorenzo Lotto, riscuotendo un certo fascino nel corso della storia, a riprova della sua rinnovata popolarità. Certo, esistono tante donne suicide nella leggenda, nella letteratura e nel mito che compiono tale gesto per salvare l’onore della propria famiglia o aggrapparsi a un baluardo identitario capace di riempirle di orgoglio (nel campo sfumato fra rivendicazione individuale e sottomissione al sistema patriarcale) ma proprio l’erotismo che accompagna sempre la sua rappresentazione mi spinge a soffermarmi sul tema della violenza. Non tanto, quindi, la violenza auto-inflitta, ma il culto per questa donna che in un momento disperato deve soddisfare gli appetiti dello sguardo vorace di un uomo, che troverà un corrispettivo nell’universo cristiano con l’umiliazione di Maddalena penitente, con i capelli lunghi e sciolti per nascondere le sue nudità svelando, casualmente, proprio i dettagli più sensuali. Insomma, anche al colmo delle disgrazie c’è sempre uno spettatore da dover accontentare.

Restando in ambito romano, il tema iconografico del ratto delle Sabine mostra uno scenario completamente diverso: qui le donne sono tutte uguali, troppo spersonalizzate nell’orrore per concedere quell’intimità perversa di Lucrezia-Maddalena. In questo caso c’è il trionfo della sessualità violenta, ma anche onanistica e orgasmica, dell’uomo che si compiace nel trionfo di sé stesso. Ma, anche quando gli uomini non sono gli unici carnefici, alla fine finisce che il loro sguardo e la loro politica riesce a istigare nuove forme di violenza, da parte di altri soggetti. Nel 1914 la suffragetta Mary Richardson deturpa con una sfuriata di coltellate la Venere Rokeby (1647-1651) di Diego Velasquez nella National Gallery di Londra, emblema – secondo lei – della bellezza femminile costruita dall’uomo e imposta alle donne. Sebbene il gesto sia facilmente condannabile, in quanto non ha senso prendersela con una donna bella (dipinta o reale) per criticare il sistema, la rabbia è assolutamente comprensibile.

Guardare, riconoscere e accettare la violenza non è un’operazione a buon mercato. Portare a termine questo processo implica una presa di posizione e di responsabilità che mette sé stessi e il proprio mondo in gioco, riconoscendo come certi ruoli auto-imposti possano avere un’origine molto più lontana di quella che crediamo, ma non per questo atavica e determinata in modo naturale, per liberare i nostri modi e linguaggi attuali. Dietro la recita melò e abusante della coppietta di tredicenni gelosa su TikTok c’è un mondo da disarticolare, per decostruire lo stereotipo della passività femminile (rappresentata da quelli che vorrebbero la sorella Elena Cecchettin piangere in casa al buio, ravvisando nella sua presenza battagliera sulle telecamere una colpevole freddezza) e del macho passionale (al di là dei cliché cari alla cronaca nera del “mostro” e del “bravo ragazzo”) prima che si arrivi alle estreme conseguenze, dove tutto il teatro deflagra.

 

Arrivare troppo tardi

 

L’esempio del video di TikTok racconta un qualcosa che alcuni potrebbero giudicare superficiale, un trend come un altro, specie se relazionato a un caso di femminicidio. Addirittura, altri potrebbero pensare che, il fatto che questo genere esista, e abbia successo, dimostri come l’idea dell’opuscolo illustrato non sia così fuori luogo. Ma la cosa problematica di questi video – fruiti per mero diletto, non costituendo certo una guida per difendersi dal cosiddetto “amore tossico” – è che sdoganano la violenza, anche quella più sottile e invisibile, come una qualcosa di cui si può tranquillamente ridere, rafforzando stereotipi e annullando l’immedesimazione. Riflettere sul modo di rappresentare le donne, e la violenza, è importante perché lì si gioca anche la possibilità di liberare loro, e gli uomini, dalla trappola delle narrazioni precostituite, dal silenzio che spesso queste impongono a entrambe le parti. Lo sanno bene le artiste, che spesso con la loro opera lottano proprio contro tutto questo.

Pipilotti Rist nell’iconico Ever is over all (1997) diventa la protagonista di una scena assurda: con una mazza a forma di fiore sfonda i vetri delle macchine parcheggiate lungo un marciapiede, mentre prosegue il suo cammino di distruzione con aria trasognata, dando sfogo a un latente bisogno di rivolta tutto femminile. Niki de Saint Phalle con la serie dei Tiri, negli anni sessanta, attraverso l’uso di una pistola modificata, spara del colore contro un bersaglio che sostituisce la figura di suo padre abusante, ottenendo un tardivo, ma necessario, riscatto. Spesso, appunto, queste rivendicazioni arrivano in ritardo, e possono solo compensare o curare una violenza subita nel passato. Eppure, è tanto necessario spingersi così oltre, magari dopo tantissimi anni, quanto cercare di muoversi in anticipo, con la consapevolezza che la violenza si sottrae al regime del rappresentabile, mostrandosi in tutta chiarezza, spesso, soltanto quando è oramai troppo tardi.

A volte, però, questa rivelazione “oggettiva” non arriva mai. Ingeborg Bachmann nella sua incompleta trilogia Todesarten (cause di morte) racconta precisamente questo, di come molte uccisioni avvengono senza spargimenti di sangue, ma non per questo siano meno reali e tragiche, coinvolgendoci tutti.

 

Cause di morte, tra queste rientrano anche i delitti. Questo è un libro che parla di un delitto (...) Esso tenta di far conoscere, di ricercare qualcosa che non è scomparso dal mondo. Oggi è soltanto infinitamente più difficile commettere delitti, ecco perché questi delitti sono tanto sublimi che quasi non riusciamo ad accorgercene e a comprenderli, benché vengano commessi ogni giorno nel nostro ambiente, tra i nostri vicini di casa (…) che ancora oggi moltissime persone non muoiono ma vengono assassinate. (…) I delitti che hanno bisogno dello spirito, che turbano il nostro spirito e meno i nostri sensi, quelli insomma che ci toccano più profondamente — avvengono senza spargimento di sangue, e la strage si compie entro i limiti del lecito e della morale, all’interno di una società i cui deboli nervi tremano di fronte agli atti belluini. Ma non per questo i delitti sono diventati meno gravi, essi richiedono soltanto una maggiore raffinatezza, un diverso grado d’intelligenza, e sono spaventosi

(Il libro Franza, 1973)