L'Amletico

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Scrivere di scrittura

Ho sempre pensato che gli artisti, scrittori compresi, dovessero possedere una certa vena di follia per riuscire nella loro missione: per me il motto ‘genio e sregolatezza’ ha sempre funzionato. Così, quando ho scoperto la mia passione per la scrittura, ho faticato a riconoscermi in quello stereotipo – per quanto nella mia testa fosse positivo e funzionasse – in cui creatività faceva rima con caos. Sono stata quasi sempre una persona disciplinata. E quando ho visto Genius, mi sono identificata più nel rigoroso editor Colin Firth che nello scrittore tormentato Jude Law. 

È chiaro che la mia fantasia fosse ferma a un modello di artista fine ottocentesco, anche se non escludo che ci sia chi lo incarni ancora a distanza di quasi due secoli. Poi però, un pomeriggio in cui stavo leggendo un inserto culturale, è stata una frase di John Grisham a risvegliarmi. Di John Grisham non ho mai letto una sola riga in vita mia, eppure, quella frase mi ha rapita. “Io comincio sempre un nuovo romanzo il primo di gennaio di ogni anno. E di solito il libro è pronto ai primi di luglio […] Gennaio, febbraio e marzo sono i mesi più impegnativi […] Scrivo dalle sette e mezza del mattino fino a mezzogiorno circa, dopo quattro ore il mio cervello non è più in grado di funzionare e devo fare attività fisica. Scrivo in un piccolo ufficio, a casa, senza telefono, senza internet, senza musica né altre distrazioni. Non ho collaboratori. L’importante è che ci sia tanto caffè. È una gioia immensa questa routine.” Ho strappato il ritaglio dal giornale e l’ho attaccato sulla prima pagina della mia agenda. Ho iniziato a farci caso, quando gli scrittori parlavano delle loro pratiche nello scrivere.
Tra tutto quello che ho letto sulla scrittura, è stata questa frase a spingermi a iniziare questa indagine sulla scrittura. Un’indagine che porterò avanti cercando di toccare tematiche diverse, scandagliando il mistero del lavoro creativo in scrittura. Perché di lavoro si tratta, e qui la musa dell’ispirazione c’entra poco e niente.

Che “è richiesta molta poca magia e moltissimo duro lavoro” lo dice anche Gabriel García Márquez. Lo scrittore colombiano descriveva così la sua giornata: “Scrivo tutti i giorni della vita, sempre alle stessa ora, mi alzo ogni mattina alle sei e trascorro due ore a leggere, se non leggo al mattino non troverei altro tempo durante la giornata. Alle nove mi siedo alla macchina fino alle due del pomeriggio. Tutti i giorni faccio così, le mie settimane non hanno domenica: deve essere così tutti i giorni, senza eccezioni. Quando non lo faccio, ho un peso sulla coscienza, come se non mi fossi guadagnato il pasto. Osservo questa regola rigorosamente come un impiegato.” Ve lo immaginate un premio Nobel che si considera un impiegato?

La pagina bianca è quanto di più terrorizzante possa esistere per uno scrittore, e la dedizione è l’unica arma che egli possiede per combatterla. Lo sa bene anche Márquez che, al contrario di alcuni scrittori lanciatisi in commenti malevoli verso i loro colleghi, prende a prestito un consiglio di Ernest Hemingway per superare il blocco: “Quando ti senti così, diceva Hemingway, e giunge l’ora di terminare, continua una paginetta in più, quella del giorno dopo. Così, quando arrivi al giorno dopo, ti trovi già la giornata iniziata, la ricopi e continui.”

Ebbene sì, persino il più intemperante tra gli scrittori moderni aveva la sua disciplina di scrittore. Hemingway scriveva all’alba, quando “non c’è nessuno che ti disturbi e c’è fresco o proprio freddo e ti dedichi al tuo lavoro e ti riscaldi scrivendo”, scriveva in piedi con la macchina da scrivere poggiata su un mobile all’altezza del petto, si dava degli orari da rispettare e un numero di parole da scrivere per sessione. Dopodiché, spesso, si concedeva una nuotata.

È questo rigore di ferro che mi ha colpito del mestiere di scrivere, e mi ha convinta a ridisegnare l’immagine dell’artista che avevo in testa. Nel 1965, Gabriel García Márquez si chiuse in uno studiolo e ne uscì diciotto mesi dopo con la prima stesura di Cent’anni di solitudine. Mi riesce difficile pensare che in quello studio mancasse il lavoro duro e serio, e attribuire il merito di tale capolavoro all’invisibile mano dell’ispirazione significherebbe sminuire l’opera dell’uomo.

D’altronde, come pure ha detto Philip Roth, “L’ostinazione, non il talento, ha salvato la mia vita.” Ma di Roth (e del talento) magari parliamo un’altra volta.