L'Amletico

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Santa Sofia, storia di una basilica contesa

La storia della Basilica della Divina Sapienza, Hagia Sophia, a Istanbul si incrocia con un racconto di Tolstoj – incompleto, e pubblicato solo dopo la sua morte - Memorie postume dello starets Fëdor Kuzmič, che racconta una vicenda tanto bizzarra quanto ritenuta, dai contemporanei e da numerosi storici, credibile.

Alessandro I, colui che aveva contribuito in modo determinante a sconfiggere Napoleone Bonaparte nella disastrosa Campagna di Russia intrapresa dall’imperatore corso, non sarebbe morto di tifo il 1 Dicembre 1825, ma avrebbe coronato il suo sogno di ritirarsi dagli obblighi che imponeva il ruolo di Zar di tutte le Russie per divenire uno starec, un monaco ortodosso. Nonostante la storiografia ufficiale ci racconti un’altra versione, l’apertura della sua tomba avvenuta nel 1921 ha rivelato l’assenza delle sue spoglie mortali. Comunque, quando la notizia della morte dello Zar si diffuse, tutte le attenzioni si rivolsero al fratello minore di Alessandro, un uomo che aveva già quarantasei anni, ma che sin dalla nascita era stato chiamato a un destino più grande di lui, a partire dal nome: Costantino.

Non era stato il padre, lo Zar Paolo I, a battezzarlo con quel nome. La scelta era stata imposta dalla nonna sassone, Sofia Federica Augusta, ascesa al trono di tutte le Russie come Caterina II. Per celebrare la nascita del suo secondo nipote, nel 1779,  l’Imperatrice fece coniare una moneta con inciso, su una delle due facciate, quello che al tempo stesso era il suo programma politico e il destino del neonato: la cupola della Basilica di Santa Sofia, sormontata da una croce ortodossa.

Una provocazione, ma un sogno che i russi attendevano da quasi quattrocento anni. Dopo il 29 Maggio 1453 infatti, data della fine dell’Impero Romano, la famiglia imperiale bizantina vagò esule prima a Corfù e poi a Roma, presso il Papa Sisto IV, fino a quando la nipote di Costantino XI, Zoe, sposò il Gran Principe di Mosca Ivan III nel 1472, portando le insegne imperiali – adottate, a partire da quella data, dalle dinastie regnanti russe – in quella che sarebbe divenuta la Terza Roma.

Ma la suggestione di una Costantinopoli di nuovo cristiana ed Europea, liberata da un imperatore che portava lo stesso nome dell’ultimo basileus dei romani, rimase tale. Perché Costantino, pur non essendo stato formalmente incoronato, abdicò dopo pochi minuti in favore del fratello minore Nicola. E la realpolitik delle altre potenze europee avrebbe, nei decenni successivi, rallentato il progressivo indebolimento dell’Impero Ottomano e le conseguenti annessioni territoriali russe.

Una celebrazione del potere imperiale

Che la basilica avesse un ruolo politico, prima ancora che religioso o spirituale, in grado di incidere in maniera determinante sull’immaginario dei contemporanei, lo si era capito dalla sua fondazione. O meglio, dalla sua rifondazione. Perché l’attuale complesso fu realizzato solo dopo la distruzione della struttura precedente, nel corso della rivolta di Nika. E se la Storia attribuisce a Giustiniano la realizzazione del complesso che è giunto fino a noi, probabilmente dobbiamo riconoscere alla sua consorte, Teodosia, meriti altrettanto grandi. Non solo perché fu lei a convincere Giustiniano, pronto alla fuga con l’intero tesoro, a corrompere alcuni dei capi della rivolta e a far massacrare gli altri. Ma a lei si deve la decisione di ricostruire, in maniera ancora più imponente, la Basilica: occupando parte di quello stesso Ippodromo in cui era scoppiata la rivolta. Una chiara ostentazione di potere, considerando che la Basilica divenne l’edificio più imponente della città, accanto a quello che ne era il centro commerciale e sociale, l’Ippodromo, e alla residenza imperiale del Gran Palazzo.

Il fatto che la Basilica divenne sede del Patriarcato di Costantinopoli non deve trarre in inganno. A differenza di quanto stava avvenendo già ai tempi di Giustiniano in occidente, la Chiesa ortodossa subiva – e avrebbe subito nei secoli avvenire – un rigido controllo da parte dell’Imperatore, che ne sfruttava la funzione evangelizzatrice per accrescere quello che oggi chiameremmo il soft power dell’Impero.

Anche se quando pensiamo al 14 Febbraio pensiamo alla festa degli innamorati, la Chiesa celebra in quella data i due patroni d’Europa, i Santi Cirillo e Metodio. Entrati a far parte del clero della Basilica di Santa Sofia, furono inviati dall’imperatrice Teodora a evangelizzare la Pannonia e la Moravia, con l’intento politico di contrastare gli analoghi sforzi dei missionari latini, controllati dagli imperatori carolingi. L’alfabeto da loro creato per tradurre i testi sacri, il glagolittico, ha rappresentato da un lato un fattore di inclusione dei popoli slavi, dall’altro la linea di demarcazione – culturale più che geografica – tra Europa Occidentale ed Orientale, resa ancora più marcata dalla successiva conversione delle popolazioni russe.

Tra il IX ed il X secolo, dalla Scandinavia al Mar Nero, si assistette ad un ritorno preponderante del paganesimo. I Rus’ di Kiev, i rematori che occupavano le pianure dell’attuale Ucraina e dalla Russia Occientale, erano naturali alleati dell’Impero Romano contro le popolazioni seminomadi provenienti dall’Asia. Il loro sovrano, Vladimir decise, per ragioni di stato più che per sensibilità religiosa, di adottare una religione monoteista. Fu allora che, secondo le cronache, furono inviati ambasciatori tra gli stati monoteisti confinanti.

L’impervia regione degli Urali era allora abitata da Bulgari musulmani. Ma oltre a una descrizione poco lusinghiera delle loro condizioni di vita, il divieto di bere alcool e di consumare carne di maiale rappresentò un ostacolo non aggirabile per la conversione all’Islam. Non andò meglio ai messi inviati presso i Khazari, una popolazione il cui regno si estendeva tra il Mar Nero ed il Mar Caspio, convertiti all’ebraismo nell’VIII secolo. La convinzione che, avendo perso il controllo di Gerusalemme, Dio avesse abbandonato i fedeli ebrei fu determinante nell’escludere la più antica religione monoteista dalle scelte del sovrano di Kiev.

“Non sapevamo se fossimo in cielo o sulla terra”. Fu quanto riferirono, invece, gli ambasciatori inviati a Costantinopoli che ebbero modo di visitare la Basilica della Divina Sapienza. Il loro resoconto fu decisivo per la scelta russa di convertirsi al Cristianesimo, rafforzando i legami politici e militari con l’Impero. Dal momento del battesimo collettivo, nel 988, la Guardia personale degli imperatori romani fu costituita da un folto contingente di guerrieri russi, scandinavi e – successivamente alla conquista normanna dell’Inghilterra – anglossassoni. Il modello architettonico e artistico di Hagia Sophia divenne la base per l’edificazione di chiese, che per lo più portano quel nome, in tutto il mondo slavo.

Ma la conversione alla religione di stato dei Romani, in Russia come nei Balcani, ebbe conseguenze ancora più profonde sul piano storico e politico, rappresentando uno spartiacque che avrebbe attraversato i successivi dieci secoli di Storia. L’ostilità tra Russia e Polonia, quelle tra Croati (e i loro sovrani cattolici, ungheresi prima, austriaci poi) e Serbi, corrono lungo il confine politico e religioso delle conquiste militari e dell’allargamento della sfera d’influenza religiosa e politica degli imperatori di Costantinopoli.

 

La profanazione latina

Milioni di turisti ogni anno visitano una delle piazze più conosciute del mondo, Piazza San Marco a Venezia. Pochi, però, ricollegano la quadriga esposta sulla facciata della Basilica veneziana a un evento che ha segnato per secoli i rapporti tra il mondo cattolico e quello ortodosso: la Quarta Crociata del 1204. Per farlo, però, bisogna risalire al 1071, data della battaglia di Manzicerta, la cui celebrazione contemporanea è stata istituita dall’attuale Presidente turco Erdogan come epopea d’inizio del popolo turco. Non senza ragioni.

I turchi, pur avendo vinto una battaglia tutto sommato marginale, approfittarono della situazione per penetrare in Anatolia. Non con il proprio esercito, ma con il proprio popolo. La fuga, disperata, della popolazione greco-romana determinò nei venti anni successivi una delle più profonde trasformazioni etniche mai avvenute nella Storia, con l’insediamento stabile di tribù e clan turchi in tutta l’Anatolia, con l’eccezione delle zone costiere ancora sotto il controllo dei romani.

Una situazione cui cercò di porre rimedio l’imperatore Alessio, della dinastia Comnena, preoccupato dalla minaccia turca che aveva in pochi anni cambiato volto al Medio Oriente, non solo a spese dell’Impero, ma anche della dinastia araba sciita dei Fatimidi, cui era stata strappata Gerusalemme e la Palestina. Nel 1089 si decise, finalmente, a chiedere aiuto all’unica autorità che i romani riconoscevano in Occidente: quella del Papa. La richiesta di invio di mercenari franchi – accompagnata sulla proposta di riunificazione della Chiesa cattolica con quella ortodossa - per combattere i turchi divenne però, a Roma e nelle corti europee, una guerra santa per liberare i luoghi santi dal controllo degli infedeli.

Se le prime tre crociate sono un’epopea più conosciuta, la Quarta fu una storia più torbida e imbarazzante per il mondo cristiano. Con un folto  esercito pronto a riconquistare Gerusalemme, ma privi di finanziamenti per raggiungere la Palestina, i crociati dovettero affidarsi alla Serenissima. In cambio della riconquista di Zara, sanguinosamente strappata al Regno d’Ungheria, e del coinvolgimento in un’accesa lotta dinastica all’interno dell’Impero Romano che avrebbe fruttato futuri favorevoli accordi commerciali per Venezia. Giunti a Costantinopoli si accorsero però che le cose erano più complesse di quanto avevano immaginato, ma con un esercito agguerrito e affamato di bottino a disposizione crociati e veneziani passarono dalla diplomazia alla guerra.

La presa della città, il 12 Aprile 1204, portò alla spartizione dell’Impero. Il secolare dominio romano venne sostituito dal cattolico Impero di Romània, e il Doge potè fregiarsi del titolo di Signore di un quarto e mezzo dell’Impero Romano, venendo in possesso di buona parte della Greca insulare per i secoli successivi, lasciando un’eredità che è giunta fino a noi con le pretese coloniali italiane nell’Egeo.

Fu in quei giorni che Santa Sofia subì la sua prima profanazione. I cronisti dell’epoca riportano un saccheggio che non risparmiò nulla dei sette secoli d’arte bizantina che vi erano contenuti: “…l’altare sacrificale, ricoperto di ogni tipo di materiali preziosi, fusi assieme col fuoco e intarsiati in una straordinaria bellezza e policromia, assolutamente rara e degna dell’ammirazione di tutti, fu fatto a pezzi e diviso fra quei predoni, così come tutto il sacro tesoro, altrettanto ricco e infinitamente prezioso”.

Analoga sorte toccò ai luoghi del potere politico e religioso della città, con una particolare attenzione al saccheggio di un bene che scarseggiava in Occidente, ma di cui la città sul Corno d’Oro era ricca: le reliquie. Ampolle con il Sangue di Gesù, pezzi della Vera Croce, ossa dei Santi vennero prese senza ritegno dalle chiese di Costantinopoli, nella convinzione che tutto sommato la presa di una città in mano agli eretici di rito orientale non era da meno della presa di Gerusalemme agli islamici.

Venne così scavato un solco tra Chiesa d’Oriente e d’Occidente, che si iniziò a colmare solo a partire dal Concilio Vaticano II, perché la trasformazione della Basilica di Santa Sofia in una cattedrale cattolica, la persecuzione dell’ortodossia nei territori dei vari principi crociati, furono un’onta mai dimenticata dal mondo greco. Che determinò da lì a poco, nonostante la riconquista romana del 1261, la fine dell’Impero ormai indebolito e l’ascesa della potenza turca, con il conseguente facile accordo politico tra i nuovi dominatori e la Chiesa Ortodossa. Beneficiaria della tolleranza e del pragmatismo ottomani,  più ostile al dominio latino e veneziano (che durò fino al XVI secolo in molti territori greci) che a quello musulmano. In un singolo episodio latini e greci misero da parte le loro divergenze, il 28 Maggio 1453, il giorno antecedente alla conquista turca, quando fu celebrata nella Basilica la prima ed ultima messa ecumenica della sua Storia.

Da chiesa a moschea, a museo

Quando il giovane Maometto II salì al trono del Sultanato ottomano, il suo obiettivo fu chiaro dall’inizio: conquistare Costantinopoli. Nonostante l’esiguità dei territori sotto il controllo romano, e la crescente forza turca che si era lasciata alle spalle le devastazioni e la guerra civile successiva alla conquista di Tamerlano, la presa della città era tutt’altro che scontata.

Costantinopoli, all’alba dell’era dell’artiglieria, era protetta da tre cinta murarie costantemente manutenute nei secoli, e dalla sua naturale posizione geografica. Nonostante la disparità delle forze in campo, circa settemila tra soldati romani, genovesi, spagnoli e truppe pontificie da un lato, contro circa 90mila ottomani dall’altro, la città resistette quasi due mesi. In molti casi la situazione per Maometto II apparve davvero disperata, tanto che il sovrano turco dovette motivare le sue truppe promettendo loro che sarebbe entrato in città per reclamarla solo dopo aver lasciato i suoi uomini saccheggiarla per tre giorni.

Il film propagandistico turco Fetih 1453 (Conquista del 1453) mostra Maometto II entrare in una Costantinopoli pacificata e risparmiare le vite dei cristiani che si erano rifugiati nella Basilica. In realtà Hagia Sophia fu teatro di massacri, stupri e saccheggi.

Il giorno dopo la conquista capì però che, se avesse mantenuto fede alla promessa, della città sarebbe rimasto ben poco. Santa Sofia fu la prima meta del suo trionfante ingresso in città. Lo storico Tursun Bey descrive così la Basilica all’arrivo del conquistatore: “La cupola gareggia con le nove sfere del cielo, le pareti sono ricoperte, in luogo di intonaco, da frammenti di vetro e oro, cosicché nessuno possa scoprirne le connessure; il pavimento è rivestito di marmi colorati tanto che chi guarda dalla terra al cielo ha l'impressione di vedere il firmamento, e chi guarda dal cielo alla terra ha l'impressione di vedere l'oceano ondoso Nella cupola un abile artista ha raffigurato un uomo che da qualsiasi parte lo si osservasse sembrava guardare l'osservatore”.  

L’uomo è il Cristo Pantocratore raffigurato sulla Cupola che, insieme agli altri mosaici, fu pesantemente intonacato per permetterne la trasformazione in Moschea. In realtà, ci vollero settimane affinché fosse finalmente agibile. Ma, come tutta Costantinopoli, dopo gli anni di decadenza del dominio latino e quelli della dinastia dei Paleologi, Santa Sofia conobbe un periodo di rinascita e di nuovo splendore. Nel corso dei secoli i vari sultani procedettero a opere di ornamento della struttura, anche con bottini provenienti dalle campagne di conquista ottomane, e consolidamento di una struttura che risentiva del suo millennio di storia.

Contrariamente a quanto si crede, il nome ufficiale di Costantinopoli rimase in uso fino al 1923, quando Mustafa Kemal, padre della moderna Turchia, iniziò a recidere i legami con il passato Ottomano. La città, dopo sedici secoli, cessò di essere una Capitale a vantaggio della laica e geograficamente centrale Ankara, e il suo nome venne mutato in Istanbul, dalla corruzione del greco  "εἰς τάν Πόλιν", che indicava come Costantinopoli fosse la Città per antonomasia, un concetto analogo a quello di Urbe per la sua gemella d’Occidente.

Più generalmente il padre della Turchia impose, grazie a un regime autoritario laico, ma molto vicino a quelli che si stavano affermando in Europa, una modernizzazione forzata al suo paese, e un avvicinamento culturale al mondo occidentale. Dall’adozione dell’alfabeto latino, passando per la scelta dei cognomi al posto dei patronimici, fino a un abbigliamento occidentale e al bando dei simboli religiosi. La scelta di convertire Santa Sofia in un museo, restituendo i tesori artistici nascosti dall’iconoclastia islamica, andava nella direzione di allentare le tensioni con il mondo cristiano, e in particolar modo con la Grecia contro cui aveva personalmente guidato la riscossa turca.

Ma la recente decisione del Consiglio di Stato turco, anticipato da un serie di dichiarazioni e provocazioni del Presidente Erdogan, è probabilmente l’atto simbolico che chiude un secolo breve di avvicinamento della Turchia all’Europa. E, dopo anni in cui il dibattito politico occidentale è stato a volte occupato dalla discussione sull’opportunità o meno di far entrare la Turchia nell’Unione Europea, apre una nuova fase nelle relazioni a cavallo del Bosforo.

Non c’è più la Sublime porta, ma la politica interna ed estera di Erdogan è ormai improntata alla ricostruzione dell’influenza turca su quelli che sono stati per secoli i territori soggetti all’Impero Ottomano, con una più marcata connotazione di difensore dell’Islam. Dai progetti di cooperazione e sviluppo nella Bosnia-Herzegovina, ancora attraversata dalle tensioni etniche e religiose, e in Palestina, fino agli interventi militari (diretti o indiretti) in Siria e Libia. Proprio come nell’epoca d’oro dell’espansione osmanide, la Turchia sta sfruttando la debolezza e la frammentazione europea per imporre la propria egemonia, grazie a un insolito asse con il proprio nemico storico, la Russia.

Se l’Impero Ottomano è collassato sotto il peso dell’emergere dei nazionalismi nel suo vasto Impero, da Aqaba a Belgrado, e delle spinte riformiste interne, per vedere crollare l’impero che Erdogan sta pazientemente edificando bisognerà probabilmente aspettare la sua successione, e quell’insolita e reciprocamente sospettosa alleanza che si sta costruendo tra i misconosciuti curdi, chiamati dalle parti di Ankara turchi delle montagne, e ciò che resta del repubblicanesimo kemalista e laico, che recentemente ha strappato al Sultano la città in cui è iniziata, come Sindaco, la sua sfolgorante carriera politica. Istanbul o, se preferite, Costantinopoli.