Moonlight di Barry Jenkins è veramente un bel film. Aspro, amaro. Lascia soltanto intuire che, alla fine, ci potrà essere una speranza per Chiron, fragile ragazzo dei sobborghi neri di Miami.
Contribuiscono a rendere il film interessante, non solo gli interpreti che si susseguono nella parte di Chiron durante le sue diverse età, ma anche tutta una gamma di personaggi – primo tra tutti lo spacciatore Juan, interpretato con grande misura da Mahaershola Ali – che conferiscono coralità espressiva alla pellicola, in una vicenda che coniuga con grande efficacia squallore e poesia, violenza e tenerezza. Tra questi c'è poi Kevin, amico sincero, che non sfugge però alla legge del branco obbligandosi a tradire Chiron. Anche se sarà poi lui, quando alla fine il film giunge in porto, a fargli intravedere la possibilità di un futuro in cui ci sia – insieme a tutto quello che non c'è e non ci potrà mai essere – la possibilità di far parlare i sentimenti; con l'unico linguaggio che i due conoscono, questo è vero, ma pur sempre dando spazio a qualcosa che è rimasto assente in tutta la storia che il film racconta.
Perché in un film in cui la vera protagonista è l'infelicità, sembra intravedersi un'immagine – anche se sfocata e perfino ambigua – della vita che, forse, vale la pena vivere.

Il film è accompagnato con ripetuta insistenza da una colonna sonora che sembra voglia ribadire la pregnanza del racconto. Sullo sfondo di un ambiente, materiale ma anche umano, che già da solo dà corpo alla narrazione.  Primi piani, piani sequenza, spezzoni di vita tra le casupole del ghetto nero di Miami, pause in cui la parola è lasciata agli sguardi e ai gesti. Tutti ingredienti di un modo di rappresentare la storia di Chiron che consente allo spettatore di vivere il film appropriandosi dell'intero bagaglio di emozioni cui questo ha dato vita.

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