L'Amletico

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Louise Bourgeois alla Galleria Borghese, la madre dei ragni nel regno di Ovidio.

Il 21 giugno la Galleria Borghese ha inaugurato la mostra monografica Louise Bourgeois. L’inconscio della memoria, curata da Geraldine Leardi e Philip Larratt-Smith, un incontro scenografico e drammatico fra l’immaginario arcaico dell’artista francese e lo sfarzo lirico del museo e della collezione permanente.

La bellezza di questo accostamento, che esalta la violenza di opere profondamente viscerali – immerse nell’eleganza senza tempo di stanze preziose come scrigni, a contatto con opere che invece col proprio tempo hanno fatto la storia – si muove precisamente su una dialettica di raffinatezza e inquietudine, un accostamento che rivela, al contempo, segrete risonanze fra i due universi semantici. Il Casino di Villa Borghese, concepito come un luogo di estasi per gli occhi, è un sogno per gli amanti d’arte. La celebre scultura Maman, che con la mostra domina l’esterno di questo edificio etereo, inserito in una candida visione bucolica, ci trascina in un altro versante onirico, dove un ragno tesse una tela da incubo. La bellezza come difesa dall’orrore? Che agisca come baluardo contro il male o come ingannevole menzogna, questa promessa che sembra un tradimento è un invito sublime. La sua presenza a Roma, al principio di questa torrida estate, ci offre una tela di sensazioni a cui varrebbe la pena abbandonarsi. Non occorre divincolarsi per liberarsi, non occorre chiarire dove finisce e inizia l’una o l’altra cosa per scoprire tutte le implicazioni emotive e culturali di un’arte che guarda dentro l’abisso, quello dell’Io e della storia, per raccontarci una nuova metamorfosi.

 

Spider 1996 Bronzo 236,4 × 756,8 × 706,1 cm Private Collection, New York - All images are © The Easton Foundation/Licensed by SIAE 2024 and VAGA at Artists Rights Society (ARS), NY. Ph.by A.Osio.
Da cartella stampa Galleria Borghese

Un incontro nel tempo e fuori dal tempo

 

Non è la prima volta che Galleria Borghese fa dialogare i propri spazi e il proprio patrimonio con i grandi nomi del contemporaneo. Storicamente, ricordiamo alcuni illustri precedenti che hanno realizzato forme di dialogo inedite e coraggiose. Nel 2009 era la volta di Francis Bacon, con Caravaggio-Bacon, mentre nel 2014 delle sculture di Giacometti, con Giacometti. La scultura. Questa, inoltre, non è neanche la prima volta in Italia che l’artista francese ha dialogato con la tradizione artistica. Nel 2008, il Museo di Capodimonte a Napoli ha dedicato alla Bourgeois una grande mostra, Louise Bourgeois per Capodimonte. Proprio in quell’occasione, molte sue opere erano state disposte in maniera tale da dialogare con opere di maestri del passato.

Ma qual è la peculiarità di questo incontro romano?

Le installazioni contemporanee di Bourgeois, oggi, riaffermano ciò che la Galleria rappresentava per Scipione Borghese, il suo sogno megalomane, ovvero uno scrigno di tesori personali, ma anche un luogo così mondano da custodire un’eredità ricchissima, che va costantemente rinnovata con nuovi incontri e nuovi sguardi, favorendo idealmente nuove letture della sua storia del museo e della storia dell’arte.

L’artista francese, con il suo immaginario, si nutre di storie e suggestioni che, senza trascendere le memorie personali dell’artista (che spesso fungono da prima chiave di lettura della sua poetica), affondano le loro radici in patrimoni iconografici eterogenei, che vanno dall’aulica storia dell’arte antica (il riferimento all’arte topiaria, l’utilizzo del marmo di carrara…) alla tormentata storia del Novecento, con i suoi miti e le sue leggende reinventate, che saldando e sfaldando ponti e collegamenti fra questi due ordini di temporalità. Tutto questo avviene nella ricerca di Bourgeois senza il pedantesco ricorso a citazioni, venendo piuttosto plasmato dalla sua magmatica visione artistica, che dona forma a una ricerca vulcanica, forgiando un mondo lirico e idiosincratico. Per questo, in tale dominio espanso, la sua opera si confronta con esperienze traumatiche che evocano una grazia talvolta classica, talvolta barocca, più spesso manierista, costruendo una bellezza che risuona di una dolente intensità, senza rinunciare a indagare – con distacco critico – temi e topoi controversi del contemporaneo, come la figura dell’isterica, qui sapientemente reinventata in senso maschile. Ma questa non è l’unica inversione, l’unico capovolgimento nel suo lavoro artistico. Tutto viene continuamente reinventato, anche il contesto in cui esso viene inserito, per questo ogni occasione è buona per farsi rapire, come da una divinità…

 

 

 

La metamorfosi dell’antico alla prova dell’inconscio

 

Galleria Borghese è la casa di una delle sculture più celebri tratte dalle Metamorfosi di Ovidio. Apollo e Dafne di Bernini esibisce una storia tragica di violenza e destino, condensata in un unico istante fatidico. L’urlo della ninfa, fulcro focale del movimento tortile di due corpi (quasi) sul punto di incontrarsi, esprime sia l’orrore per la minaccia di stupro latente che la paura per la nuova forma di vita che la attenderà dopo la trasfigurazione in alloro. Griselda Pollock, storica dell’arte che si è lungamente soffermata sulla produzione artistica di Louise Bourgeois, a questo proposito parla di pathosformel, riprendendo un concetto di Aby Warburg, per raccontare della sopravvivenza di questa violenza di genere, cristallizzata nella monumentale bellezza e nell’ufficialità simbolica di un capolavoro che, apparentemente, ci fa dimenticare tutte queste cose, o, senza dubbio, ce le rende decisamente più sopportabili. In ogni caso, secondo il pensatore tedesco, le formule del pathos, conservano – anzi, fomentano – un’energia del passato che non si è estinta, che cerca solo un’occasione, uno sguardo, un dialogo per manifestarsi e rinnovarsi.

Alla Galleria Borghese, un’altra vicenda mitica tratta da Ovidio può rivivere grazie a Louise Bourgeois. Parlando di ragni, non so può non pensare al mito di Aracne, la giovane fanciulla greca che sfidò Atena in una sfida tessile. L’esito della vicenda è risaputo: avuta la peggio sulla mortale, questa viene prontamente maledetta dalla Dea vendicativa, venendo trasformata in un ragno. La crudele sorte vuole che il talento diventi una condanna, e la bellezza del prodotto finale si compie a danno della bellezza della sua produttrice, in quanto abbiamo ragioni di supporre che anche anticamente tale animale non venisse particolarmente apprezzato per la sua peculiare fisionomia. Eppure, insieme alla paura o al disgusto, anche oggi non manca di esercitare ambiguamente un certo fascino, a riprova del fatto che i giganteschi aracnidi di Bourgeois – da Bilbao a Londra, passando per Tokyo – hanno segnato lo skyline e l’immaginario comune della nostra contemporaneità (così ossessionata dagli eccessi, ma anche così schizzinosa), superando l’istintiva antipatia che esercita questo soggetto. Gilles Deleuze, affascinato da tale animale, notò come il suo corpo lo rende naturalmente votato verso la pratica tessile: tutto il sistema di muscoli-zampe è funzionale allo svolgere quest’attività. Si potrebbe dire che per noi essere umani, col nostro concetto di arte, possiamo pensare che il ragno rappresenti il superamento della dicotomia fra natura e cultura, in quanto le sue produzioni “estetiche” si muovono in continuità con la sopravvivenza della sua specie.

         L’arte del ragno, dunque, è necessaria per la vita, e in effetti quello che produce con le sue ragnatele è qualcosa che – anche se letale per le sue prede – cuce e (ri)cuce ciò che è rotto, diviso, separato. Sappiamo che nella famiglia di Louise Bourgeois si riparavano tappeti, arazzi e che dunque il significato della serie Maman si lega, necessariamente, anche al senso positivo che questa attività assume da una prospettiva umana, letta in modo metaforico. In un’intervista, inoltre, l’artista dichiara che i ragni nella sua vita hanno in più occasioni svolto un ruolo benefico, quando vivendo in Africa e in Connecticut la loro presenza in casa svolgeva un ruolo protettivo per lei e la sua famiglia, mangiando le zanzare portatrici di AIDS. Il ragno dunque – mitico, domestico, inquietante, benevolo – è una figura molto vicina all’artista, e non a caso questa costellazione di sensi richiama la dimensione sia creativa che distruttiva della madre all’interno della sua vicenda familiare.

Emersa dall’adolescenza con le ferite causate da un padre abusante e dal precoce lutto materno, venuta a mancare nella sua vita quando ancora aveva ventidue anni, Bourgeois sente che c’è molto da riparare, e tutta la teorizzazione che accompagnerà la sua pratica artistica mira proprio a definire il ruolo che avrà l’arte in questo processo. Qui entra in gioco il rapporto dell’artista con la psicoanalisi, centrale anche nel discorso che porta avanti la mostra Louise Bourgeois. L’inconscio della memoria.  Solitamente, quando si parla di inconscio all’interno nella pratica artistica si pensa all’arte come una forma di terapia, oppure al gesto creativo come operazione confessionale. Se si tratta di un artista donna, inoltre, l’aspetto soggettivo (e traumatico) prende sempre più il sopravvento nella percezione comune, ricalcando stereotipi e automatismi difficili da sradicare. Ma, innanzitutto, nel nostro caso, bisogna ricordare che Bourgeois ha avuto un rapporto conflittuale con la disciplina freudiana, come testimoniano anche tanti scritti e interviste intrise di rabbia, veleno e ironia, concludendo di essere rimasta delusa dalla sua frequentazione con essa. Quindi nessuna catarsi, solo una cura infinita, una tensione irrisolta che passa attraverso un lavoro infinitamente variato, come le polimorfe tele di un aracnide.

 

Favola ovidiana, favola borghese, favola delle origini

 

Come per il ragno, l’arte è necessaria a Bourgeois per la sua sopravvivenza. Carla Subrizi, in Azioni che cambiano il mondo. Donne, arte e politiche dello sguardo (2012), afferma che questa rappresenta per lei la possibilità di ri-fare l’esperienza del trauma. Non serve a superare la paura, ma a confrontarsi con la paura, per farne esperienza. L’artista stessa sostiene che nella sua opera lei capovolge la sua condizione di vittima, che la condannava a subire nel suo passato, assumendo nello spazio della creazione una posizione attiva. In questo senso, propongo di pensare che la sua creazione passi attraverso una performance, un re-enactment che agisce come un attivatore di emozioni perdute, passando per un patrimonio materiale ricchissimo, che per vitalità rimanda all’universo surrealista delle associazioni e dei doppi sensi. Così dalla vicenda biografica, l’estetica di certe sue sculture riesce a risalire indietro nel tempo, avvicinandosi al totemismo e alla magia primitiva. Nel tempo mitico, in passato, pratiche proto-artistiche e rituali religiosi supplivano a spiegazioni psicologiche, per elaborare le sofferenze psichiche della collettività, attraverso favole, forme e figure che sono arrivate fino ad oggi, mantenendo – se non proprio la loro efficacia – gran parte del loro fascino.

La vitalità di questo paganesimo antico è lo stesso che Bernini rimette in moto nella girandola aggraziata e convulsa di Apollo e Dafne, una polarità energetica che esibisce sia la positività dello slancio erotico sia la negatività della violenza che questo contempla. L’immagine archetipica di una violenza originaria rivoluziona ancora una volta lo sguardo, grazie al confronto fra le opere dell’artista e le storie e i temi delle sale. Quali scenari mitici evocano le sue sculture in questi ambienti incrostati di immagini? Cell (the last climb) e Passage dangereux, non ci fanno forse pensare a dei cabinet de curisoité? Con i loro titoli suggestivi, che inneggiano al potere alchemico di trasformare la materia, come l’esperienza dello spettatore. E questo, avviene mentre ad accoglierlo ci sono le mani protese in avanti di Untitled n. 7 e The welkoming hands, che, con il loro statuto frammentario, richiamano il pathos fantasmatico di un’epoca perduta, di un abbraccio e di un’ispirazione fatalmente spirata. Dalla forma a spirale, e spiritata, Spiral Woman Janus, invece, non fa che sottolineare l’associazione fra animale e femminile che storicamente ha portato a stigmatizzare (ma anche a esaltare) la donna nell’immaginario figurativo occidentale, come testimonia la posizione di tale scultura nell’Uccelliera, dove si ospitavano specie esotiche e preziose.

La ricerca formale di Bourgeois, in questo contesto, riscopre – o meglio scava – nella tradizione figurativa senza mai rivolgersi direttamente al passato, recuperando a partire dal proprio tempo il fascino perduto di una bellezza che contempla qualcosa di oscuro, di doloroso e di rimosso, in immagini dotate di grande forza e riconoscibilità. Il dialogo che instaura con tale eredità riesce a “comunicare” senza mai estendere il proprio campo di indagine all’interno dell’orizzonte figurativo: l’artista, infatti, resta sulla soglia di un passato – personale e storico – appena “visualizzabile”, per rendere con la materialità di esperienze che, invece, legate al tema del ricordo e della lotta col trauma, con ciò che sottrae allo sguardo, rimandano a qualcosa di altro rispetto al dominio della coscienza, che preme per emergere, per tradursi in immagine nonostante tutto.

Personalmente, trovo particolarmente adatto disporre un corpus di opere come quello di Bourgeois in delle sale così ricche di storie figurative e immagini dense, debordanti di marmi e ori. Il carico di dolore che le sue creazioni si portano dietro, in questo incontro, non viene né neutralizzato dall’aulico splendore degli interni né esasperato in modo trionfale e retorico, col rischio di appesantire ambienti già saturi. Semplicemente, quest’opera così semanticamente stratificata, ma al contempo porosa e accogliente, trova un suo modo di esistere, di rapportarsi a un contesto dotato di una forte identità, realizzando una sorta di “piega”. Sì, proprio una piega, all’interno dello spazio fisico e dell’esperienza corporea e mentale dello spettatore. Sono opere, infatti, quelle di Bourgeois che guardando il passato di sbieco, raccontando sensazioni ed emozioni sfuggenti, talvolta inquietanti o anche sottilmente inquietanti, che generano un’attrazione irresistibile in molti, un’attrazione dalla forma indefinibile.

Concludiamo con una citazione di Stefano Velotti, che in La filosofi e le arti. Sentire, pensare e immaginare (2012) si sofferma proprio su una delle serie di opere esposte nella Galleria Borghese, Janus Fleuri, un’opera che cita due riferimenti classici, nel titolo il dio Giano e nella forma l’Ermafrodito. Ma la fioritura, simmetrica, che esplode come un fuoco d’artificio, e che unisce queste due facce, rivela tutta la tensione utopica di un’arte che tende non solo a un godimento estremo, ma anche a un dialogo radicale con l’altro:

 

… E se tutto questo ha una sua plausibilità, l’apertura, la deiscenza, la fioritura che viene messa in opera è ciò che ci concerne, che ci riguarda, che si rivolge a noi: un autoritratto in forma di fioritura come coinvolgimento in un processo vitale da condividere, un invito a sostare su una sovrapposizione di soglie (Giano, dio dei passaggi, delle soglie, delle porte, e per questo anche di quel passaggio unico che è la nascita): la possibilità di sbocciare, di dare inizio a qualcosa, di nascere ancora. Un riscatto, forse, dalla (sua) posizione umiliante di pegno, una liberazione o un’accettazione di ciò che si è (stati), che, dopo dolorose potature, permette finalmente una piena fioritura dorata.