L'Amletico

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La valorizzazione di una collezione tramite la pratica artistica: il virtuoso esempio del Museo di Antichità di Torino

A trecento anni della nascita della Galleria Archeologica del Museo di Antichità di Torino, il collettivo Guerrilla Spam ci invita a (ri)scoprire la sua straordinaria collezione.

Tra menadi danzanti e putti dormienti, i visitatori del museo si imbatteranno in un gruppo di tre nuove affascinati e aliene installazioni site-specific che non solo dialoga magistralmente con lo spazio, ma valorizza alcuni dei pezzi più iconici della collezione.

I Guerrilla Spam, costituitisi a Firenze nel 2010 come spontanea azione non autorizzata di affissione negli spazi urbani, sono artefici di poliedrici progetti in luoghi eterogenei, dai musei alle scuole passando per le comunità minorili, fino alle carceri e ai centri di accoglienza, prediligendo costantemente l’uso dello spazio pubblico come luogo della collettività.

Presso il Museo d’Antichità di Torino, l’obbiettivo resta sempre lo stesso: plasmare un’opera d’arte simbolica che comunichi a più livelli di significato con l’osservatore.

In questa intervista abbiamo chiesto ai Guerrilla Spam di raccontarci di più su questa ambiziosa proposta, che contempla l’artista come un vero e proprio regista.

 

In che modo la visione di un artista può contribuire alla valorizzazione di una collezione e dei suoi relativi spazi?

 

L’artista ha un occhio esterno che osserva una collezione in modo differente da un curatore o da uno storico, viene da dire in modo più “pratico”. Durante il primo sopralluogo alla Galleria Archeologica di Torino camminavamo per le sale inconsciamente in cerca del nostro spazio, come quando si entra in un bar e si cercano sedie vuote per trovare posto. L’artista entra nel museo con l’idea di occuparlo o comunque, più parzialmente, di prendere al suo interno una posizione, ha una visione più fisica, concreta. Se l’artista non ha intenti autocelebrativi, se non sente la pressione del contesto e se resiste alla tentazione di eccedere, di esagerare per essere all’altezza, allora può creare qualcosa di particolare in grado di dialogare con gli oggetti del museo e anche di valorizzarli.

 

Quali sono le opere realizzate per la Galleria Archeologica dei Musei Reali di Torino? Come dialogano con l’ambiente circostante?

 

Le sculture che abbiamo inserito nel museo sono collocate di fianco o in mezzo a reperti antichi, hanno una sintonia con il contesto, ma appaiono pure come oggetti alieni. Il gruppo più grande di sculture è composto da Due suonatori di tamburello e due oranti e riprende il tema tipico della statuaria votiva cipriota. Le sculture precedono le statue di offerenti della sala, in particolare una statuetta di suonatore di tamburo, unicum nel museo.

Nella Sala Etrusca invece il Sarcofago degli amanti è collocato al centro delle urne della Tomba dei Matausni di Chiusi; vuole essere un rimando al celebre Sarcofago degli Sposi di Cerveteri. I due personaggi stilizzati, quasi simbolici, sono distesi uno sopra l’altro poggiati sul coperchio della loro casa ultraterrena; il braccio curvo dell’uomo sorregge la testa della donna con un gesto di affetto. Infine, la Dea assisa in trono è esposta nella Sala Cipro in dialogo con la statua omologa.

 

Come è nata questa idea? Ci sono analogie tra l’arte cipriota ed etrusca e il linearismo geometrico e simbolico ricorrente nella vostra produzione?

 

Il progetto è nato dalla proposta del curatore Matteo Bidini che tramite Club Silencio aveva già lavorato con noi per l’inserimento di una scultura all’interno del nuovo Museo di Scienze Naturali di Torino (opera attualmente nella collezione permanente del museo). Matteo, che conosce da anni la nostra ricerca e il nostro interesse per l’antico, ci ha contattati sapendo che non avremmo rifiutato una proposta simile. In totale libertà, senza richieste dal curatore o dal museo, abbiamo creato sculture con forti richiami allo stile cipriota e a quello dei sarcofagi etruschi con rimandi esterni ai musici di Picasso, alle figure di Costantino Nivola, ma anche alle statuette cicladiche viste in Grecia. I reperti di Cipro e dell’Etruria presenti in museo sono stati essenziali nella scelta tematica e cromatica; entrambe le culture hanno un gusto estremamente raffinato nelle forme, basta guardare l’eleganza dei volti etruschi o delle pose cipriote, che per quanto differenti condividono una semplicità, anche geometrica, stupefacente.

 

Che tipo di materiali sono stati scelti per la realizzazione delle opere e perché?

 

Inizialmente lo staff del museo ci ha chiesto di utilizzare materiali “leggeri” che potevano essere più pratici sia per l’allestimento sia per evitare rischi ai reperti in caso di imprevisti. Quindi no pietra, no metallo, no legno, no materiali pesanti; abbiamo allora pensato alla carta seguendo l’esempio delle sculture portatili di Picasso o di Munari, ma alla fine la scelta è ricaduta sulla gommapiuma, materiale volutamente industriale e alieno al contesto di un museo di antichità. Abbiamo quindi trattato la gommapiuma con stucchi, pitture e colle sino a ottenere un risultato adeguato che rendesse più ambigua la resa la superficie agli occhi del pubblico. Solo la scultura della Dea assisa in trono è in legno scolpito. La statua originale cipriota è giunta acefala: la testa apparteneva ad un’altra statua ed è stata inserita successivamente sul busto. In parallelo la nostra rielaborazione presenta la piccola testa in legno degli anni ’40 che mostra la sua estraneità e cita l’originale di Cipro.

 

Quanto il vostro background e le vostre indagini sullo spazio pubblico hanno influito sulla realizzazione di questo progetto? Ci sono affinità tra spazi pubblici urbani intesi come luoghi della collettività e i musei?

 

Sia il museo che la piazza sono luoghi della collettività. La differenza sta che nel museo il pubblico entra “preparato” a qualcosa mentre nelle strade tutto è più inaspettato. Le nostre esperienze ci hanno influenzato nel modo in cui ci approcciamo ai contesti. Siamo partiti dallo spazio pubblico urbano, muri, strade, piazze, poi abbiamo provato a lavorare in spazi “interni” dalle stanze di un centro sociale a quelle di una fondazione o museo d’arte contemporanea, passando per le scuole, le comunità minorili, le carceri. Di contesti ne abbiamo visti molti come di panorami, dalla metropoli al paesino. E abbiamo imparato a trattarli e a curarli in modo differente: ogni luogo ha i suoi linguaggi e i suoi pubblici. Differenziando il nostro modo di fare abbiamo spontaneamente prodotto opere eterogenee che alle volte sembrano uscite dalle mani di differenti artisti e questo, anche se va contro ogni logica del mercato, ci piace e diverte molto.

 

Quali sono i vostri progetti per il futuro?

 

Continuare la ricerca! Tutti i progetti futuri nasceranno da questa voglia costante di scoprire, conoscere luoghi, persone, storie. La curiosità verso il mondo che sentiamo nostra l’abbiamo alimentata nel tempo e trasformata nel motore che crea, inconsapevolmente, nuovi progetti. Partiamo da un interesse, ciò che ci piace fare, poi questo piacere si trasforma in qualcosa da restituire agli altri perché quando conosci una cosa nuova hai voglia di condividerla, raccontarla. E il nostro modo di raccontare è il mezzo artistico. Stiamo finendo di scrivere queste risposte in viaggio per il Monte Bego in Francia con la missione di trovare incisioni preistoriche sparse nella valle; da questo viaggio uscirà un progetto? Forse si forse no, intanto intraprendiamo il viaggio, poi si vedrà.

Intervista a cura di Gaia Redavid.