L'Amletico

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La natura nuda del Teatro dei Calanchi

Dotarsi di una tenuta comoda e di una torcia elettrica a batteria. Sembra il consiglio per un'escursione notturna, e invece è la frase che si legge sul sito del Teatro dei Calanchi prima di acquistare un biglietto. Da subito s'intuisce che non si tratta di un'esperienza comune. Si è conclusa da poco la quinta edizione (sold out) di questa rassegna teatrale e musicale nel cuore dei calanchi di Pisticci, in provincia di Matera. Abbiamo chiamato l'ideatore, Daniele Onorati, "creativo lucano, regista e coach teatrale, appassionato d'ogni forma di espressione artistica" per farci raccontare da lui cosa significa recitare nella natura.

Foto di Irene Ferri

Buonasera Daniele, prima di tutto una domanda: perché consigliate al pubblico di portare una torcia elettrica a pile?

Questo è un aspetto fondamentale. Ci sono due parole nel nostro evento: “teatro” e “calanchi”. Una è sconosciuta ai più, ed è calanchi. Molti non sapevano che cosa fosse (anche tra quelli che frequentano il teatro ormai tutti gli anni) e, in generale, dire “calanchi” non richiama un’immagine ben precisa.

Che cosa significa la parola “calanco”.

Terra che casca, che scivola. Sono conformazioni argillose che vengono levigate dal vento e dalle acque piovane. Ci sono nel Metapontino, ma anche in altre zone d’Italia. Bene o male, dove c’è argilla e il bosco non c’è più, si formano i calanchi.

Tu hai detto che la superficie somiglia a “pelle d’elefante”.

A me sembrano delle rughe di un pachiderma. L’aspetto affascinante è che producono il rumore della pioggia. Se tu prendi un po’ di quella terra e la fai cadere sui calanchi, senti il rumore della pioggia, l’acqua. Che però è la grande assente di quei luoghi, che si formano anche per via di una siccità e aridità.

Foto di Irene Ferri

La parola teatro invece cosa produce.

Calma, perché è una parola conosciuta. Quindi il pubblico che potrebbe aspettarsi una situazione tradizionale è molto, ma il nostro non è teatro. Non è quello che tradizionalmente chiamiamo teatro.

Le sedute, infatti, sono di paglia.

E i parcheggi sono in argilla. Non ci sono tappeti rossi, non c’è un soffitto. Non c’è tecnologia. L’evento non è quindi un pretesto per fare teatro, ma il teatro è un pretesto per fare un’esperienza.

Foto di Irene Ferri

Tra l’altro c’è uno spettacolo “CALANCHI XP”, che prevede un percorso.

È una piccola escursione che dura 90 minuti, dove si racconta della poca, ma fitta, fauna che popola i calanchi. Non è uno spettacolo, ma una vera e propria escursione. Perché è importante capire che i calanchi non sono una scenografia. Da quando facciamo il teatro dei calanchi sono stati girati circa 10 videoclip di alto livello: da Caparezza a Moro, fino a Ligabue.

Il calanco non è quindi solo scenografia, ma anche parte dello spettacolo.

Anche per niente scenografia. Perché “graphos” è disegnare. Non non disegniamo. Quella è una “sceno-fania”, un’apparizione. Una cosa che è lì da secoli. Per noi quindi è fondamentale connettere il pubblico con la natura di questi posti. Considera che prima che il calanco si declinasse come spazio d’arte, come luogo di congiunzione tra natura e cultura, c’era solo l’agricoltura. E agricoltura e calanco non vanno d’accordo: perché è una terra arida. Perciò quello che noi vediamo come un posto fantastico, per l’agricoltore non lo è. Tante volte si procedeva a “sbancare”. Negli anni i trattori sono passati sopra per far sparire le conformazioni che la natura ha creato nel corso dei secoli.

Voi quindi li ripopolate, gli ridate vita.

Siamo riusciti anche a far breccia nel cuore degli agricoltori. Che si sono visti trasformare la visione di una terra non fertile come una terra d’occasione. Considera che proprietari con 100 ettari di terreno ci contattano per chiederci: “Fatelo nella mia terra”. Un tempo il contadino diceva “l’anno prossimo lo sbanco e ci metto il grano”, da quando abbiamo seminato e innaffiato con la cultura, anche la visione del contadino è cambiata: non vede più una terra da “sbancare”, da metterci il grano, ma un posto dove ospitare un evento.

Solo d’estate è possibile?

Considera che sono posti selvaggi. Se viene giù della pioggia è difficile muoversi e spostarsi a piedi e con i mezzi. Il mio sogno è avere un pubblico attrezzato a spettacoli anche d’inverno. Ma devo fare i conti con la mia follia (ndr, ride).

Dai calanchi hai poi sviluppato un progetto di artigianato creativo. Cos’è e com’è nato?

È un progetto nato in seno al primo spettacolo. Avevamo l’esigenza di amplificare il coro delle baccanti nella prima edizione del Teatro dei Calanchi. Sono tornato a casa e ho trovato un oggetto dimenticato in un cassetto. L’avevo costruito con l’aiuto di mio padre e della sua collega, che da 25 anni ha un laboratorio di ceramica a Pisticci. Era uno strumento primordiale: una percussione in ceramica. L’ho ripreso e ho pensato di dargli una forma prensile, che si potesse percuotere meglio e usare anche per il canto. Sono quindi diventati una sorta di megafoni in ceramica. Da lì quindi è nato un progetto di artigianato musicale che si chiama OODOO (sito web).

Perché questo nome?

Dal suono. È un’assonanza. E c’è anche un progenitore, che è stato scoperto da un archeologo americano in Nigeria. È un vaso sonoro che si chiama UDU. Ci piaceva quindi creare un ponte musicale con l’Africa.

Quali spettacoli avete proposto quest’anno al Teatro dei Calanchi?

Tre. Tra questi c’è Festivàl degli insetti.

Foto di Irene Ferri

Di che parla?

Viene fuori dalla riflessione che gli insetti nei calanchi non mancano. Sono davvero tanti, è il loro luogo perfetto perché è un posto lontano degli esseri umani. Lo spettacolo racconta un capovolgimento dei ruoli tra uomini e insetti, che si prendono qualche sfizio nei confronti degli umani facendoli riflettere su come la vera natura sia quella dove tu ti addentri, non quella che vedi dal balcone come un panorama o come scenario lontano. L’invito che Festivàl fa è quello di rotolarsi dentro la natura e sentirne il profumo più da vicino.

Foto di Irene Ferri

Cercate di inserire la natura nei vostri spettacoli?

Non sempre, c’è anche il vuoto, la solitudine, la mancanza di orientamento. Parole chiave che hanno fatto mettere in scena Delirium. È un gioco di apparizioni, di vertigini, uno spettacolo labirintico, una radiografia della nostra natura che mostra la natura istintuale che sottende alle nostre azioni.

Il vostro è un teatro unplugged, disconnesso, senza l'uso di elettricità o altri apparati elettronici. In questo periodo in cui siamo stati connessi al cellulare più del solito, c’è ancor più bisogno di staccarsi dai dispositivi tecnologici?

Sì. E mi piace pensare che il lockdown ci abbia imposto in qualche modo di “ridimensionare” il gesto artistico. L’arte si può permettere, anche oggi dove sembra obbligatorio dotarsi di una tecnologia, di farne a meno. Costringerci a questo gesto significa dunque spremere la creatività.

Un ritorno quindi alle origini.

La rinuncia potrebbe essere un valore.

Voi fate della terra, i calanchi, il vostro palco. Sembra quasi come se la terra vi cullasse in queste anse che si creano nell’argilla.

La nostra è anche una sfida per attribuire al calanco tutte quelle caratteristiche che di solito vengono chieste a un palco attrezzato. Tu dicevi “placo”, ma in realtà è difficile definirlo tale. A volte non è sopraelevato.

È naturale.

Non ci sono entrate, non ci sono uscite, non ci sono quinte. Non c’è retroscena. Anche il nostro backstage, a volte, diventa un luogo frequentato dagli spettatori, che nell’attesa dello spettacolo girano e si trovano in quella che dovrebbe essere una dimensione intima tra gli attori, e che diventa invece un luogo dove si può curiosare.

A tal proposito, quest’anno mi è venuta un’idea. Questi che per me, fino a oggi, erano effetti collaterali, ho deciso di inserirli nell'esperienza. E allora ho pensato di renderlo ancora più nudo questo teatro e di far avvenire tutto in scena.

Ad esempio?

Truccarsi e vestirsi a favore di pubblico.

Un teatro nudo.

Il piede degli attori, quello che calpesta l’argilla, è nudo. A volte anche i loro corpi sono nudi (in alcune rappresentazioni passate è capitato).

Perché gli attori sono scalzi?

C'è un aspetto romantico, quello di stare a contatto della natura con i piedi nudi, ma anche tecnico, usare il tatto dei piedi per evitare di scivolare. Non siamo abituati a sentire sotto i piedi la consistenza del terreno su cui stiamo. E nella maggior parte delle volte che caschiamo è colpa delle nostre scarpe. Nei calanchi si rischia di cascare un po’ più spesso, perché il terreno non è regolare, è sconnesso, ci sono buchi, si sgretola. E quindi avere il piede a contatto è fondamentale e ci consente di essere attaccati al terreno.

Consigliate di fare questa esperienza anche al pubblico?

Sarebbe bello.

Cosa si prova nel recitare in un palco del genere a contatto con la natura?

La prima sensazione è di essere in un altro tempo. Non è nostalgia, perché il Wnóstos” si prova quando si fa un’esperienza e questa ti manca. È un “ nóstos” più radicale: è l’esperimento di un tempo che non c’è (e probabilmente non ci sarà mai, anche se non lo sappiamo). Immagina che nei calanchi troviamo dei fossili che hanno qualche miliardo di anni.

Un viaggio temporale.

Si, un viaggio nel tempo incredibile.

E l’altra sensazione?

Pur non essendoci pareti, ci si sente protetti. Come se la terra ci abbracciasse, custoditi dalla madre argilla. Sembra un gesto infantile e materno. E questo, secondo me, è un unicum. Che solo recitare nei calanchi ti può dare.

Foto di Irene Ferri

Il pubblico che reazioni ha?

Due. Una di grande fascinazione, di essere parte di un’esperienza eccezionale. Pensa che nei calanchi ci si può andare quando si vuole, ma di notte pochissimi vanno. È quasi un posto dove pochi esseri umani hanno messo piede. È quindi come portare il pubblico a smarrirsi.

C’è un’altra parte di pubblico, pochi, che invece ancora si aspetta qualcosa di tradizionale: maggior tutela, comodità, che non ci sia il vento, che ci sia luce. Lottiamo ogni anno per cercare di educare questa parte di pubblico sperando di non selezionare, ma di persuaderla verso questa esperienza. Che può sembrare anche fastidiosa o dolorosa, ma a noi piace pensare che anche con un feedback del genere si possa regalare un’esperienza irripetibile.

Ho letto che potreste ripeterla a fine agosto?

Quest’anno i sottoscrittori rimasti fuori sono stati tanti. Sia perché le norme Covid-19 ci avevano imposto un numero massimo di partecipanti, sia perché la natura dell’evento (senza amplificazione acustica e senza strumenti che possano avvantaggiare l’ascolto) ci impongono di non superare un certo numero di persone: altrimenti si rischia di non arrivare a tutti. Ci auguriamo di poter replicare.