L'Amletico

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Juan Rodolfo Wilcock, “Il libro dei mostri”

Mi piacerebbe avere la metà del talento di Wilcock. Anzi, che dico! Un terzo! Ma che blatero ancora, me ne basterebbe un quarto. Insomma, ne vorrei una frazione qualsiasi, dal denominatore sempre maggiore, purché dell’abilità scrittoria di questo straordinario autore.

Mi succede che più leggo Wilcock e più mi irrora le vene una gioia quasi selvaggia, derivante certamente da lui e dalle sue parole, dal momento che mi considero una persona molto pacata.

Sempre più mi sorprendono le doti creative di Wilcock, che plasmava la lingua come se fosse una materia duttile e malleabile, suscettibile di essere stirata e allungata, arricciata in girali o appiattita e perfettamente polita come uno specchio. Se poi penso al fatto che Wilcock era argentino mi ritrovo infine a raddoppiare la portata della mia venerazione nei suoi confronti: non era madrelingua ma scriveva nel migliore italiano che si possa anche solamente immaginare. Non si fermò neanche all’italiano, tanto era maestro di altre lingue da tradurne strepitosi autori, essi stessi virtuosi della parola.

Wilcock potrebbe essere considerato un “mostro” da annoverare nel suo libro.

Ma dunque, cos’è questo libro, “Il libro dei mostri”, che Wilcock ha scritto e che a me è tanto piaciuto?

Ebbene, “Il libro dei mostri”, ad un primo sguardo distratto, si offre come una serie di microscopiche biografie di persone che, ciascuna a proprio modo, non lesinando sulla varietà, esula dalla normale definizione di essere umano e si differenzia per qualche strampalata caratteristica, o somma di caratteristiche. Da qui la definizione di mostri, sebbene mi piaccia pensare che il termine usato abbia un’accezione molto più vicina alla sua radice, qualcosa che si riferisca non necessariamente all’aspetto pauroso o spiacevole - comunque frequente -, quanto alla lontananza dalla normalità, alla straordinarietà.

Persino i nomi, fantastici ed eufonici titoli delle biografie, saltano fuori dai consueti binari dei patronimici e diventano quasi nomi mitologici.

Certamente, le descrizioni attingono ad un pozzo di ironia e fantasia per produrre individui assolutamente incredibili, come l’uomo affetto da simmetria radiale ma che scrive poesie, o il ragazzo che in realtà è un turbine d’aria, o come quel cardinale che si ritrova inglobato in un poliedro di plastica.

Le biografie sono brevissime, al massimo tre pagine di eleganti e comodi caratteri dell’Adephi, e ricordano quei piccoli piaceri ai quali difficilmente si riesce a rinunciare e che ne richiamano sempre di simili, uno dopo l’altro, fin quando non finiscono, come fossero piccoli biscottini grandi un solo morso, o acini dolcissimi d’uva. Si possono leggere ovunque e in qualsiasi momento, durante la pubblicità alla televisione, seduti sui mezzi pubblici, o su altri più solitari troni di ceramica bianca. Ovunque, credetemi!, ovunque vorrete sgranocchiare queste vite incredibili nel praticissimo formato.

Ma “Il libro dei mostri” non è solo una spassosissima e deliziosa infruttescenza, è anche - forse soprattutto - un camuffato libro di poesia.

Wilcock era un poeta, frequentava poeti e traduceva poesia. Mi sembra quindi naturale che il suo divertissement sia molto più simile ad una raccolta di poesie in versi liberi che ad un libro di racconti. Nel brevissimo spazio di un paio di pagine egli dà vita a tali personaggi, ammantati da un’aura inaspettata e commovente, che celano qualcos’altro sotto alle loro proteiformi apparenze: Anastomos, l’uomo il cui corpo è coperto da specchi e che quindi è considerato il più bello del mondo; l’ufficiale postale Frenio Guiscardi, il cui corpo leggero è sospinto da una forza, forse quella del vento, forse quella dell’amore; Mario Obradour, ragazzo che soffre nell’avere un guscio esterno durissimo ma un interno tenero che nessuno percepisce; Massenio Loppi, fidanzato-miraggio che pone una seria questione sull’illusione dell’amore; il maestro Amelio Sligo, ammasso schiumoso che emette musica; Junius Polla, uomo invisibile che sfida la protezione di dio; Paola Udovic, ammasso di dolore dal quale, però, emerge sotto forma di canto la grandezza dell’arte; così via.

Wilcock sfrutta l’estremismo dei suoi mostri per parlare delle nostre pulsioni e delle nostre debolezze, delle nostre vite ordinarie e di ancor più ordinari desideri.

La mostruosità di cui parla, l’uscita dalla regola, ha il vantaggio di una manifestazione per così dire macroscopica, ma spesso, nella caoticità di membra irriconoscibili, di ammassi di carne o di piume o di vermi, si cela un’esperienza, un’attitudine, una tendenza che noi lettori “normali” non diremmo più mostruosa, ma che nondimeno terremmo nascosta come fosse un mostro.

Sono convinto che, se ci trovassimo insieme dopo la lettura di questo libro, potremmo convenire sul fatto che, dopotutto, le creature di Wilcock si chiamano mostri ma mostri non sono: sono creature perlopiù innocue (e non è a caso, secondo me, che “Il libro dei mostri” si apra proprio col meno mostruoso fra tutti gli uomini, cioè quello più bello), e d’altra parte i personaggi che affiancano i poveri mostri si comportano come se tutto fosse estremamente normale, anzi meglio, incasellato nelle rigide maglie di una logica tanto stringente quanto assurda.

Il sospetto, in conclusione, è che Wilcock, ridendo molto degli altri e di sé, abbia adoperato una sorta di illusione ottica chiamando “mostri” le sue creature bizzarre, ma volendo accentuare quanto in realtà siano mostruosi i normali esseri umani, quelli banali che si possono vedere in numerosi esemplari aggirarsi impunemente per le strade, indistinguibili gli uni dagli altri eppure, loro sì, malvagi e pericolosi.

Vorrei citare le ultime righe del libro per avvalorare questa tesi, ma non vorrei rovinarvi il finale - che finale non è. Vi lascio piuttosto, se vorrete, il piacere di scoprirle.