L'Amletico

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In ricordo di Faber

Celebrato come il più grande cantautore italiano di sempre, De André continua ad affascinare ed emozionare con la sua poesia musicata, unendo le vecchie generazioni alle nuove. A vent'anni dalla scomparsa lo vogliamo celebrare ricordando quattro dischi fondamentali per tutti gli appassionati.

Tutti morimmo a stento, 1968

Con un solo disco alle spalle, De André decise che il suo secondo passo discografico doveva già “stonare” rispetto al resto della canzone italiana. E riuscì nell’impresa, perché “Tutti Morimmo A Stento” (1968) mostrò un esempio per l’epoca di concept nella musica d’autore. Concept nel contenuto, in quanto al centro delle ballate è cantata la morte psicologica degli ultimi, e nella forma, poiché tutto il lavoro si gioca su una tonalità precisa e ripetuta, come esplicato dal sottotitolo che recita “cantata in Si minore per solo, coro e orchestra”. Gli intermezzi legano una tragedia dietro l’altra, come la corda bianca attorno al collo degli impiccati, disseminati ovunque nel lento declino verso l’oscurità. In un clima di fiaba macabra si susseguono iconograficamente immagini di anime perdute, né salve né salvabili, che saranno destinate all’ultimo rintocco di campana. Così è per i drogati del cantico e per le povere fanciulle ingannate e infine soggiogate. L’orchestra di Gian Piero Reverberi tinge gli arrangiamenti di nero e proietta su un’intelaiatura prog il lamento di Faber, imbevuto del songwriting di matrice americana (Dylan) e francese (Brassens).


La buona novella, 1970

Era il 1969, e mentre in Italia e nel resto d’Europa imperversava la lotta studentesca, De André scriveva un album tratto dai Vangeli apocrifi, uscito l’anno seguente col nome di “La buona novella”. Da molti venne tacciato di anacronismo, gli amici e i coetanei lo criticarono per il distacco dalla realtà, per non aver raccontato quello che stava accadendo. Come spiegò poi lo stesso Faber, quel disco era un’allegoria e voleva paragonare la rivolta del ’68 con quello che secondo lui fu il più grande rivoluzionario della storia: Gesù di Nazareth. Il cantautore genovese, insieme all’aiuto del paroliere Roberto Dané, ha dunque scavato fra i vangeli rifiutati per raccontare la figura umana e terrena di Cristo. Lungo le dieci tracce di questo denso concept album si ripercorre la storia di Gesù, da L’infanzia di Maria fino alla Crocifissione sul Golgota, in una narrazione che contiene un registro poetico altissimo, colmo di metafore e figure retoriche, con testi che rasentano la perfezione. La nona traccia è forse la più celebre, si tratta de Il Testamento di Tito, dove l’imperatore romano enuncia i dieci comandamenti mentre la profonda voce di Faber recita la parte del ladrone morente accanto a Gesù. Il disco si apre con il Laudate Dominum e si chiude ciclicamente col Laudate Hominum, in un ritorno all’uomo esplicativo del messaggio dell’album. Musicalmente le tracce si appoggiano su morbidi arpeggi di chitarra, sul dolce suono di un piano, o su un melanconico violino, mentre il coro che fa da controparte alla voce di De André si accompagna ad archi, per una sonorità dal forte sapore liturgico. Un disco assolutamente unico, fra i migliori di tutta la sua discografia, come egli stesso riteneva.


Crêuza de mä, 1984

Nel 1984 De André approda al suo undicesimo lavoro in studio, lasciandosi alle spalle la Sardegna e l’Hotel Supramonte cantati tre anni prima, nell’album di inediti Fabrizio De André, noto anche col titolo “L’indiano”. Assoldato il maestro Mauro Pagani dalla PFM, i due collaborano alla realizzazione di quello che ancora oggi è ricordato tra i migliori dischi di world music italiana. Nasce così Crêuza de mä, in italiano “mulattiera di mare”, dalla fusione di musiche mediterranee, orientali e dialetto genovese. Un esercizio stilistico arduo e più che mai sperimentale, con le parole tronche dell’antica parlata di Genova che meglio dell’italiano dipingono narrazioni di prostitute, ladri e vecchi marinai bruciati dal Sole e dalla ripetitività della pesca volta alla sopravvivenza. Gli strumenti etnici e popolari fanno percepire gli odori della città ligure e del suo porto, che evolve in epicentro del mondo, luogo cosmopolita e culla policulturale in cui saggezza del popolo e “udù de bùn” si incontrano. Inizialmente la voce di Faber avrebbe dovuto raccontare i fatti attraverso una lingua inventata, un arabo rivisitato e surreale. Ma la scelta ricadde sul genovese arcaico anche per i molti vocaboli arabeggianti. Il mandolino da uno dei tanti carruggi discende melodico e raggiunge il bouzouki, che dalla Grecia attracca al mercato ittico. E Genova diventa crocevia di vite.


Anime salve, 1996

Da tutti considerato il suo testamento musicale, “Anime salve” è l’ultimo album d’inediti inciso dal grande cantautore ligure. Realizzato a quattro mani insieme al collega e compatriota Ivano Fossati, il disco – pur non essendo un concept – tratta un tema specifico: la solitudine. Il duo genovese ci racconta dei reietti, degli abbandonati, degli ultimi, che siano essi un transessuale, un rom o un pescatore.

Come ha dichiarato lo stesso Fossati, la musica è stata arrangiata quasi interamente da lui, mentre i testi sono principalmente di Faber. Difficile dire quale dei due lavori sia riuscito meglio. Le influenze musicali provengono da tutto il mondo, in una crasi sonora che rispecchia perfettamente la città di Genova, dalle lingue e dagli odori lontani. Così risuonano cornamuse scozzesi e fisarmoniche balcaniche, alternandosi a percussioni tribali dal forte sapore africano, fino ai più comuni strumenti a corda nostrani. Allo stesso modo la lingua, come fosse un “pasticciaccio” di gaddiana memoria, utilizza i dialetti e i fonemi più disparati, dal genovese del coro di Dolcenera a quello in portoghese di Princesa, fino al toccante assolo in lingua rom di Dori Ghezzi in Khorakhané. Chiude questo viaggio fra le anime salve, cioè fra gli spiriti solitari, una Smisurata preghiera, epitome di tutto il disco e quasi una summa dell’intera opera deandreiana, inno a coloro che viaggiano in direzione ostinata e contraria.


Articolo scritto a quattro mani da Giuseppe Zibella (Tutti morimmo a stento, Crêuza de mä) e Claudio Sagliocco (La buona novella, Anime salve).