L'Amletico

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Dolores Prato: “Scottature”

Quel «racconto che tutti i critici hanno definito “perfetto”» è disponibile, con la lettura di un giorno, di poche ore, a fornire al fortunato lettore tutta la perfezione che davvero lo caratterizza.

Il fatto che sia l’unico libro effettivamente ultimato e pubblicato da Dolores Prato - dal momento che non ha mai smesso di scrivere gli altri - è importante. Significa che questo libro è stato polito fino ad assumere la forma finale che Prato voleva che avesse: attraverso il necessario labor limae Prato ha tolto le asperità, ha eliminato il superfluo, ha lasciato l’essenziale; ma ha anche lucidato minuziosamente quel che è rimasto, ponendo nelle mani dei lettori qualcosa di liscio e lucente, qualcosa di cui si percepisce la rara qualità.

Alejandro Marcaccio, autore della verbosa postfazione che pare bella, ma che non lo è, presente nell’edizione del 1996 - ma da questo mese sostituita dalla nuova edizione Quodlibet a cura di Elena Frontaloni -, non è stato assolutamente in grado di recepire una simile preziosa essenzialità ed ha prodotto un discorso spigoloso, ramificato ed involuto, completamente alieno alla chiara scrittura di Prato.

Partendo dall’incipit, che è uno dei più belli che abbia mai letto, si ha immediatamente sotto gli occhi una delle ragioni di detta perfezione: la scrittura di Prato è elegantissima, dotata di una cadenza che ne fa quasi un’opera poetica. Un ritmo ternario - tre sono le monache, tre le loro caratteristiche, tre gli aggettivi che descrivono i misteri, sia quelli celesti, sia quelli terreni - induce quasi a danzare. Sono convinto che si potrebbe applicare questo gioco, scoprendo il ritmo di danza dell’intero libro, quasi ad ogni pagina.

Le parole sono state scelte con cura e sono state incastonate in cloisons che formano un disegno armonioso. Tutto il libro viaggia setosamente verso la sua conclusione, senza fretta, senza lentezza, con andatura fluida e seducente, a differenza di altri scritti di Prato, quasi aguzzi.

Le immagini evocate sono poche ma formidabili, fulcri attorno ai quali serpeggia la seta della narrazione. La rosa rossa, ad esempio, che si staglia contro il biancore generale del racconto - nonostante le varie e profonde scottature - è infissa, da quando ne ho letto, nella mia memoria.

Ma le scottature non sono di certo desaturate! Esse bruciano lungo tutto il libro. Quasi ossessivamente Prato le cita e le mostra, vere scottature o scottature metaforiche, svolgendo un gioco retorico che mai sfocia nella banalità e che, anzi, è prova ulteriore della sua eleganza.

Solo con tale raffinatezza e padronanza della lingua scritta Prato può illustrare il conflitto all’apparenza incolmabile fra dio, la religione da un lato e l’emancipazione, l’individualità dall’altro. Già, perché “Scottature” è la narrazione autobiografica dell’educazione in convento e dell’irresistibile, costante richiamo del mondo esterno, nel quale Prato penetra come l’estroflessione sensoriale di un mollusco, un organismo dalle carni sensibilissime, nato con la necessità di avere il corpo racchiuso da un guscio duro che lo protegga dal male esterno e dal mare.

Benché le valve che racchiudono Prato siano ricoperte da una madreperla cristiana, rendendo la scrittrice quasi una mistica, la vita della beghina o della monaca le appaiono nella loro profonda ipocrisia. Ecco che quindi, sciorinando la propria ironia, già altrove mostrata e caratteristica della sua vivacissima intelligenza, Prato annuncia di non voler diventare una morta parlante, ma di voler vedere il mondo e di volere uscire dalla clausura madreperlacea, a costo di ustionarsi al contatto di ciò che sta fuori. Grida di non aver imparato nulla, proprio lei che invece ha a sua disposizione una permeabilità alle cose del mondo sconosciuta alle aride monache e può fare esperienza di ben più di quanto esse vogliano nasconderle, gridando quindi, forse, non il proprio fallimento nell’imparare, ma il rifiuto degli insegnamenti ricevuti.

Ebbene, questo è un piccolo gioiello di cui sarebbe poco saggio privarsi, cominciato con una danza di monache, concluso col grande dolore di una rosa che lascia senza fiato, preludio necessario all’indipendenza, alla vita sulla terra, fuori dalla valva attraente ma claustrofobica del convento.