L'Amletico

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Originale o replica postuma da Caravaggio? La "Presa di Cristo" della collezione Ruffo di Calabria

Il seguente articolo è finalizzato a presentare uno studio critico e stilistico della Presa di Cristo (Fig. 1) della versione Ruffo di Calabria a confronto con quella che in maniera quasi unanime la critica ha attribuito a Caravaggio, ovvero la tela conservata nella National Gallery of Ireland di Dublino (Fig. 2). Nella fattispecie, il discorso vuole muovere alcune perplessità in merito all’annunciata autografia della tela esposta ad Ariccia che è caratterizzata da alcune importanti variazioni compositive e, in particolar modo, stilistiche e tecniche rispetto alla tela irlandese, nonché a tutte le altre sedici copie restanti che appaiono ispirate al modello di Dublino e non a quello di Ruffo di Calabria.

Il dipinto realizzato con tecnica a olio su tela recante l’episodio neotestamentario della Presa di Cristo all’Orto, è una celebre creazione di Michelangelo Merisi ultimata per il committente dell’artista, Ciriaco Mattei nel 1603. In analisi, però, ci si sofferma sulla redazione dell’opera esposta dal 14 Ottobre 2023 al 7 gennaio 2024 presso il Palazzo Chigi ad Ariccia.

Stando alla restituzione che lo studioso Francesco Petrucci, conservatore del Palazzo Chigi ad Ariccia, dà degli inventari, la Presa di Cristo della collezione Ruffo deriva direttamente dalle opere in possesso di Asdrubale Mattei. Mettendo a confronto tutte le fonti inerenti a questo dipinto, emergono delle problematiche che difficilmente possono confermare l’affermazione riportata poco sopra. Nel 1603 si attesta un pagamento “à Michel Angelo di Caravaggio per un quadro con la sua cornice depinta d’un Cristo preso all’orto dico scudi 125”1. Successivamente si ritrova la descrizione dell’opera nell’Inventario della Guardarobba di Giovan Battista Mattei del 1616, che attesta la presenza del quadro “del Caravaggio” nella collezione di quest’ultimo, figlio ed erede dell’ormai defunto Ciriaco (morto nel 1614). Nel 1623 Giovanni Battista, prima di morire, lo dona a suo cugino Paolo Mattei, tant’è che nel suo testamento si ritrova “a mons. Paolo Mattei lascio il quadro della presa di Christo del Caravaggio”.

Paolo era il figlio di Asdrubale, a sua volta fratello di Ciriaco e dai Pagamenti di Asdrubale Mattei del 1626 risulta questa testimonianza: “[3 settembre 1626] A ms. Giovanni di Attilio pittore dodici m.ta p. copia della Presa di N.S. sc. 12”, che fa intendere come Asdrubale prese in prestito il dipinto in possesso del figlio per poter far eseguire una copia da Giovanni di Attilio. Da questo momento in poi è possibile ritrovare traccia di questa copia fatta eseguire da Asdrubale, poiché nei suoi vari testamenti non viene riportato il nome del Caravaggio come artista esecutore, a differenza delle altre fonti appena analizzate. Alla morte di Paolo Mattei la maggior parte della collezione finisce nelle mani di Asdrubale, eccetto questo quadro, che si ritrova nell’Inventario dei beni ereditari di monsignor Paolo Mattei nel 1638, anno della sua morte, e che poi ritroviamo nell’Inventario ereditario del Duca Girolamo Mattei, fratello di Paolo, morto nel 1676. Sia Asdrubale che Paolo Mattei muoiono nel 1638 tanto da lasciare a Girolamo i loro patrimoni, come si evince da un unico inventario dove si ritrova: “La presa di Gesù Cristo nell’orto del Caravaggio con cornice dorata di p. 6 e 8” che attesta l’autenticità del dipinto. In quest’ultimo inventario infatti viene riportato il nome di Michelangelo Merisi da Caravaggio che fu pagato da Ciriaco ben 125 scudi per il suo lavoro; e anche: “Copia della presa di Giesù nell’orto del Caravaggio” che probabilmente fa riferimento ai 12 scudi pagati da Asdrubale Mattei a Giovanni di Attilio per farsi eseguire una copia nel 1626. Ad oggi, oltre alla copia appena citata, ve ne sono altre sedici rintracciate da Roberto Loghi dopo il 1943.

Il primo aspetto tecnico che differisce profondamente dalla versione di Dublino concerne nelle misure decisamente dilatate della tela oggi ad Ariccia (cm 142x218,5) rispetto all’opera irlandese (cm 133,5x169,5) che hanno influito su una resa in proporzioni differenti dei personaggi rappresentati. Interessante è l’esito degli esami tecnici eseguiti dal Dipartimento Scientifico della National Gallery di Londra nel 1993 che riconosce il tipo di tela utilizzata per la Presa di Cristo conservata a Dublino, in canapa con 8 per 9 fili per centimetro quadrato, replicando la tipologia utilizzata per il San Giovanni Battista dei Musei Capitolini, eseguito qualche mese prima per lo stesso Ciriaco Mattei 2. La scelta che Caravaggio effettua delle tele nel periodo romano prevede l’utilizzo di un’unica tela dall’ordito stretto piuttosto che teleri composti da più sezioni di tele cucite tra loro, come sembra emergere dalla radiografia dell’opera Ruffo di Calabria.

In merito alla componente stilistica, si può considerare come il primo soggetto a sinistra, il San Giovanni Battista, appaia colto in una postura che, seppur ricordi quella della versione di Dublino per via del volto del Cristo che sembra essere l’espansione fisica del volto del cugino (modello ad “erma bifronte”), presenta il braccio intero proiettato verso l’estremità sinistra del quadro. Tale particolare non compare in nessuna delle altre redazioni del dipinto che seguono invece tutte il modello di Dublino in cui, rispettando il tipicamente merisiano ritmo incalzante della narrazione ad immagini, il braccio è raffigurato solo per la prima metà. Questo rende l’opera irlandese attinente sul piano compositivo a quello che può essere riconosciuto come il “taglio fotografico” ante litteram al quale Caravaggio è incline sempre più nella produzione della maturità, in cui al crescere del pathos e della tensione dell’istante fissato sulla tela corrisponde una composizione spesso dinamica tendendo a ridurre le figure a busti o unicamente a volti.

Di contro, la redazione Ruffo di Calabria con l’obiettivo di equilibrare le due sezioni del quadro, quella di sinistra e quella di destra, ben più lunghe delle altre versioni, abolisce l’elemento sintetico del braccio tagliato per la metà e lo inserisce integralmente andando così a diminuire l’effetto patetico che viene adeguatamente reso dalla figura rappresentata solo in parte.

Prima di giungere ad un discorso che comprenda non solo il personaggio del Battista, bensì tutti i volti e le porzioni fisiognomiche dei soggetti della composizione, occorre precisare la questione luministica. A tal proposito si evidenzia come nella versione di Dublino, la luce sia caratterizzata da un’inclinazione incidente che investe in maniera scenografica la scena rappresentata. Si prenda in considerazione il fondo dalla cromia bruna che viene illuminata dalla luce riflessa sui soggetti: la redazione irlandese pone in luce l’ambientazione ove avviene la presa di Cristo, ovvero l’orto dei Getsemani, caratterizzato da una vegetazione fogliata e composta da arbusti partendo dalla zona in basso a sinistra vicino il Battista, riprendendo lungo tutta l’area superiore, per poi concludersi con i rami nell’angolo in alto a destra, con particolare evidenza nell’area illuminata dalla lunga fiamma della lanterna. Confrontando quanto asserito circa l’ambientazione esaltata dal luminismo della versione irlandese con la redazione Ruffo di Calabria, risulta evidente come in quest’ultima la luce appaia di un’intensità decisamente più fievole incapace di rendere percettibile il contesto naturale, inserendo così le figure in uno spazio astratto, privo di punti di riferimento spaziali per un episodio che si consuma in un esterno. Inoltre, il contesto ambientale dell’orto sarebbe avvalorato, come elemento compositivo, anche dall’elenco di saldi della contabilità di Ciriaco Mattei sopra riportata. Il fulcro, che esprime drammaticità e pathos nella composizione, è relativo ai due ‘protagonisti storici’ della vicenda che occupano tutta la porzione sinistra del quadro insieme al Battista. Anche per tali soggetti il confronto fra le due versioni appare cruciale ai fini del sostegno dell’autografia della redazione irlandese, modello originale per le successive copie seicentesche. La centralità della luce è ancora una volta l’elemento attraverso cui i personaggi acquisiscono espressività, basilare nelle tele del Merisi. Presso Dublino il viso del Cristo è immerso in un fascio di luce proveniente dall’angolo superiore a sinistra atto a mostrare dettagliatamente la bocca, il naso e le cavità oculari. Il volto esprime un chiaro sentimento di rassegnazione e delusione seguita alla cattura e al tradimento, a stento percettibili nella versione in mostra ad Ariccia data la luce incapace di restituire il dramma delle Scritture volto ad un registro narrativo dinamico e teso.

Proseguendo l’analisi della composizione urge soffermarsi su alcuni particolari fisiognomici dei soggetti che avvalorerebbero il riconoscimento della redazione irlandese come modello primigenio delle successive versioni. In particolare, si ponga attenzione alla mano di Giuda Iscariota che afferra con veemenza il braccio sinistro del Cristo. Innanzitutto, risulta necessario comprendere il significato del segno in corrispondenza della nocca dell’indice della mano sinistra di Giuda assimilabile a un “sigillo d’infamia” sul traditore del Cristo. Michele Frazzi segnala una probabile correlazione fra la cicatrice che fu inflitta a Caino, primo traditore dell’umanità e fratricida nell’Antico Testamento, e la cicatrice che, pur non essendo citata nelle Scritture, l’autore del quadro Ruffo di Calabria rese come elemento indicativo del ruolo negativo del Giuda, evidenziato inoltre dal volto deforme del soggetto3. Proponendo il confronto con l’opera di Dublino si notano due evidenti variazioni a riguardo della mano di Giuda, la prima di natura compositiva in quanto il “marchio d’infamia” non compare nell’opera irlandese e la seconda riguarda lo stile alquanto approssimativo nel ductus pittorico e nella rifinitura dei contorni privi di accuratezza grafica della versione ad Ariccia. Analizzando ancora la figura del Giuda risulta notevole la cura per un altro dettaglio della figura, vale a dire il braccio colto in atto dinamico e le derivate pieghe della manica della veste che risultano più accurate nella redazione irlandese, così come anche illuminate al punto tale da esaltare una cromia tendente a una tonalità più chiara in confronto alla versione Ruffo di Calabria.

Un altro degli elementi che mettono in risalto la profonda lontananza stilistica della versione di Ariccia da quella della National Gallery of Ireland, è l’armatura dell’armigero posto in primo piano. Nella versione citata, la corazza è resa secondo l’inclinazione naturalistica tipica del Merisi, secondo cui il riflesso non è limitato alla porzione illuminata del metallo dell’armatura, ma si riverbera sull’intera superficie della stessa. A tal proposito, è noto come sia sempre stato difficile tradurre in pittura la superficie riflettente delle armature. Uno dei casi a cui si potrebbe far riferimento, è quello riportato da Giorgio Vasari all’interno della sua autobiografia nell’edizione Giuntina de Le Vite (1568). Il biografo aretino racconta come, al lavoro con il ritratto di Alessandro de’ Medici, conservato oggi nella Galleria degli Uffizi, chiede al Pontormo consigli circa la restituzione in pittura dell’armatura del duca. Nel caso dell’opera da noi presa in analisi, sembra che il pittore abbia riscontrato la stessa difficoltà tanto da dare all’osservatore l’idea che l’armatura rappresentata sia stata copiata da un’opera altra.

A screditare l’autografia di Caravaggio dell’opera in possesso del Bigetti sarebbe, inoltre, il confronto dell’armatura in questione con quella di un’altra opera del Merisi dello stesso periodo, quale l’Incoronazione di Spine (Fig. 3), le cui caratteristiche formali si avvicinano a quella esposta a Dublino. Notevole è anche la cresta dell’elmo che riporta una decorazione ad intreccio su tutta la sua estensione. La redazione Ruffo di Calabria propone, invece, un’armatura i cui riflessi sono realizzati tramite la stesura di pennellate poco sfumate non coerenti con l’effettiva luce che investe la scena. Tale luce nella versione esposta ad Ariccia, rende solo parzialmente visibile la decorazione elaborata rispetto alla sua gemella in analisi.

Spostandoci verso il margine destro della composizione è possibile notare il presunto autoritratto del Caravaggio nel volto del giovane reggi-lanterna. Confrontando il personaggio nelle due redazioni, si noti come il volto sia illuminato dalla fiamma della lanterna seppur con intensità luministica decisamente differente. Entrando nel dettaglio, presso Ariccia è stato possibile osservare come la fioca fiammella della lanterna riesca solo pallidamente a far risaltare un occhio privo, per giunta, della sclera. Proseguendo il discorso compositivo, si consideri la resa grafica della mano del giovane la cui facies diventa, probabilmente a causa della trasposizione su una tela di maggiori dimensioni, di proporzione più allungata perdendo in accuratezza formale, nonché in luminosità.

Altro elemento che si configura come parte centrale della composizione è da rintracciare nelle “mani incrocchiate” (Bellori, 1672) di Gesù che nella versione dublinese risaltano per l’effetto rifrangente della luce, in grado di estrinsecare il sentimento costernato del Cristo nella tragedia che si sta consumando. Se l’intento dell’opera a Dublino è sintetizzare il racconto storico e il dolore umano, la redazione Ruffo di Calabria appare debole nella forma e inefficace nell’esaltazione dell’intreccio tramite la luce. Dunque, appare evidente come la versione ad Ariccia nella zona delle mani del Cristo sia basata su una tonalità pittorica meno dettagliata della redazione alla National Gallery dublinese.

In ultima analisi, si noti come lo studio di Cappelletti e Testa ponga attenzione non solo alla tela, ma anche alla cornice, come riportato dall’inventario di Ciriaco Mattei del 1603. Secondo la lettura presentata in occasione della mostra ad Ariccia, tale cornice, che vediamo riportata negli inventari del 1616 di Giovan Battista Mattei e successivamente nel 1624 in quelli di Asdrubale Mattei, confermerebbe l’autografia del Merisi. La cornice in legno dorato si caratterizzava dunque di questa ridipintura nera sulla quale sono incisi vari motivi fitomorfi a graffito, tecnica ricorrente nella produzione artistica di Caravaggio, come si può notare nello scudo da parata con la testa di Medusa (1598), sia come cornice dello specchio convesso che tiene in mano la Maddalena nell’opera Marta converte Maria Maddalena (1599). Inoltre, il taffetà rosso richiamerebbe la dimensione privata in cui il quadro doveva essere collocato.

Tuttavia, bisogna considerare un altro fattore fondamentale che vede nell’ambiente romano degli inizi del Seicento poche le botteghe di ebanisti che producevano cornici, dunque questo invoglia a pensare che probabilmente una stessa bottega, di alto prestigio, potesse rifornire le principali famiglie committenti attive a Roma. D’altronde non bisogna escludere un’eventuale adesione ad una comune tendenza stilistica, in quanto le principali collezioni romane come quella Mattei, Giustiniani, Altemps e del Monte, erano anche le collezioni più visibili al pubblico e agli artisti.

Infine, pur sostenendo che la cornice sia autentica del Seicento, quella della redazione Ruffo di Calabria potrebbe essere una delle diverse cornici realizzate a Roma in quella fase storica per volere dei Mattei, ma la sola presenza della cornice nera arabescata d’oro nell’inventario Mattei del 1603 non risulta essere un elemento probante dell’autografia del Merisi.

Roberto Longhi e Maurizio Calvesi hanno sapientemente compreso come il Merisi fosse solito riproporre nelle sue opere dettagli e composizioni di età classica o derivanti dall’area lombarda4.

Per quanto concerne il dipinto in analisi si noti come la figura del Battista, oltre a derivare dal già citato “erma bifronte”, trovi associazioni con opere che il Merisi avrebbe potuto osservare in area lombarda durante il suo periodo di formazione. In particolare si vuole qui evidenziare la somiglianza della posa del cugino di Cristo con il domenicano a sinistra del Martirio di San Pietro da Verona eseguito da Vincenzo Foppa per la cappella Portinari in Sant’Eustorgio a Milano; e ancor di più con quella dello stesso frate nel Martirio di San Pietro da Verona (Fig. 4) eseguito nella prima metà del Cinquecento da Alessandro Bonvicino, detto il Moretto, per la cappella Grumelli nella chiesa bergamasca dei Santi Stefano e Domenico e oggi conservato nella Pinacoteca Ambrosiana di Milano.

In queste due testimonianze il braccio del frate in fuga è delimitato dal perimetro come quello del Battista nell’opera merisiana5. Come sappiamo dalle fonti letterarie e iconografiche, il martirio di San Pietro da Verona vide protagonista anche un suo confratello domenicano che tenta di fuggire, accostandosi così al racconto della presa di Cristo come descritto dal Vangelo secondo Marco: “Tutti allora, abbandonandolo, fuggirono. Un giovanetto però lo seguiva, rivestito soltanto di un lenzuolo, e lo fermarono. Ma egli, lasciato il lenzuolo, fuggì via nudo”. Se è evidente che il Merisi abbia voluto rappresentare tale personaggio, come il Cavalier d’Arpino e altri prima di lui, più interessante sarebbe il fatto di volerlo rappresentare tenendo a mente quel confratello in fuga durante il martirio del domenicano del Moretto, episodio ambientato anch’esso in un contesto naturale.

Resta aperta la questione se Caravaggio avesse visto l’opera del Moretto considerandola al momento dell’esecuzione dell’opera per Ciriaco Mattei. Se così fosse, saremmo più propensi ad accettare il rimando al Moretto e al conseguente taglio fotografico come prova della primogenitura della tela esposta a Dublino nonché dell’autografia dell’unica Presa di Cristo eseguita dal Maestro, a discapito di quella esposta ad Ariccia.

In questa ultima sezione si vuole proporre una disamina critica inerente al confronto fra la Presa di Cristo già esposta ad Ariccia e il Ragazzo morso da un ramarro della Fondazione Roberto Longhi a Firenze, in quanto vi sono dei punti di tangenza fra le due tele per quanto concerne la datazione.

Si ricorda che la tela Ruffo di Calabria è stata riconosciuta stilisticamente precedente rispetto alla versione della tela con medesimo soggetto oggi alla National Gallery of Ireland di Dublino, in quanto le imprecisioni stilistiche della versione ad Ariccia sarebbero da attribuire a un’esecuzione giovanile rispetto alla versione più matura di Dublino, oppure sarebbero dettagli tipici di un originale al quale seguì una copia autografa più dettagliata e dalle caratteristiche compositive più minuziose.

Allo stesso modo il dibattito sul riconoscimento dell’autografia del Ragazzo morso da un ramarro (Fig. 5) della Fondazione fiorentina aveva anch’esso mosso verso la considerazione di una datazione precedente rispetto alla versione dello juvenilia conservata alla National Gallery di Londra e considerata in maniera unanime dalla critica come un autografo merisiano. Infatti, “Secondo alcuni l’esemplare fiorentino, per l’immediatezza del ductus e le semplificazioni che presenta, precederebbe quella londinese”6. Con la frase riportata, alla quale segue anche la posizione critica di chi considerava il Ragazzo morso da un ramarro oggi a Firenze come opera più tarda del Merisi (ovvero non del 1596, bensì dei primi anni del XVII secolo), risulta evidente il contatto con il discorso sulla datazione della Presa di Cristo Ruffo di Calabria.

Dunque, quanto riportato è esplicativo di come le disamine critiche sulle tele dell’artista lombardo siano spesse volte riprese e rielaborate per più opere del corpus pittorico e che quindi risulta che non possano essere considerate sempre attendibili sotto la prospettiva storico-scientifica.

L’affermazione per la quale la tela Ruffo di Calabria costituisca il modello per l’opera di Dublino, e che quindi ne sia cronologicamente precedente, sembra essere difficilmente sostenibile considerando inoltre che sul dibattito critico circa l’opera fiorentina, la parte che sosteneva l’autografia del dipinto, si è infine espressa in maniera più favorevole su una datazione tarda del Ragazzo morso da un ramarro, tralasciando (per i più) l’idea di un’opera precedente alla versione londinese.

Dunque, in tale sede, la titubanza sul riconoscimento dell’autografia della tela si coniuga con l’incertezza di una datazione alta per la tela Ruffo di Calabria considerandola, quindi, come una copia successiva al 1603.

Le considerazioni finali della presente analisi stilistica e critica portano alla luce una precisa valutazione sulla redazione della Presa di Cristo della collezione Ruffo di Calabria. L’utilizzo della luce non incidente e priva di intensità espressiva, l’impiego delle cromie meno contrastanti della redazione di Dublino, la resa compositiva meno curata e più approssimata, specialmente nelle mani, permettono di considerare la tela già in mostra ad Ariccia come un’opera frutto dell’attività di un copista atto a riproporre l’essenziale stravolgente emozione dell’opera merisiana oggi in Irlanda. Risulta quindi consequenziale negare l’ipotesi per la quale la tela che è stata esposta a Palazzo Chigi non sia la prima redazione dalla quale provennero le diverse copie successive, bensì una di esse ispirata al capolavoro del Merisi.

 

 

Lavinia Di Maria, Tommaso Gristina, Giuseppe Losurdo, Chiara Properzi

 


1 Francesca Cappelletti e Laura Testa, Il Trattamento di Virtuosi. Le collezioni secentesche di quadri nei Palazzi Mattei di Roma, Roma, Argos Edizioni, 1994, p. 140. (Tutte le citazioni degli inventari riportate, fanno riferimento alla monografia di Capelletti - Testa).

2 Simone Mancini, Caravaggio's Technique: 'The Taking of Christ', Advanced Research into Practice and Process, in “Studies: An Irish Quarterly Review”, vol. 104, n. 416, 2015-2016.

3 Francesco Petrucci (a cura di), Caravaggio. La presa di Cristo dalla Collezione Ruffo, Roma, De Luca, 2023, p. 58.

4 Sulle influenze iconografiche del Caravaggio, si veda Maurizio Calvesi, Le realtà del Caravaggio, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1990 e Roberto Longhi, ‘Me Pinxit’ e Quesiti Caravaggeschi, Firenze, Sansoni, 1968.

5 Sergio Benedetti, Caravaggio's 'Taking of Christ', a Masterpiece Rediscovered, in “The Burlington Magazine”, 1993, vol. 185, n. 1088, p. 738.

6 Alessandro Zuccari (a cura di), Il Giovane Caravaggio. “Sine Ira et studio”, Roma, De Luca Editore, 2017, pp. 68-70.