Camila Sosa Villada, “Sono una pazza a volere te”
L’attesa per questo secondo titolo di Camila Sosa Villada, già autrice dello sfolgorante “Le cattive” (del quale potete leggere la mia recensione su L’Amletico) mi ha trasmesso un brivido elettrico che veicolava la promessa di un grande piacere futuro.
“Sono una pazza a volere te” è una raccolta di racconti ai quali personalmente avrei preferito un bel romanzo carnoso, ma questo ci ha dato SUR (che spero traduca e pubblichi presto altro di questa ottima, ottima scrittrice!).
Come raccontano i grandi spiriti, bisogna prima parlare delle cose meno belle, infine di quelle bellissime, per lasciare un’impressione positiva dell’argomento di cui si parla - che è la sensazione che io vorrei trasmettere con le mie parole. Siccome questa raccolta non è priva di difetti, allora vi dirò prima quel che non mi è piaciuto, dopo quello che ho amato, e di quello spero vi resti impresso nella memoria il ricordo.
Alcuni racconti (“La merenda”, ad esempio) sono francamente bruttini. “La merenda” è un peccatuccio, in fin dei conti: brevissimo, quasi insignificante, anche nella sua bruttezza. Qui, Sosa Villada inscena un dialogo fra una nonna e una nipote, dove la prima insegna alla seconda la bellezza di avere la pelle scura. Ora, le argomentazioni usate non sono molto edificanti: la donna si dà valore togliendone a chi non ha la pelle scura. Mi sarei aspettato più attenzione da parte di Sosa Villada, lei che conosce la discriminazione. La questione non è non esprimere la rabbia: si può, si deve odiare il modello xenofobo della borghesia bianca, ma il modello! Non la pelle. Non si può costruire uguaglianza applicando le stesse discriminazioni. Detto questo, “La merenda” si conclude in maniera un po’ ridicola con fucili e nessuna ragione, quasi fosse un episodio di “Oats studios”. A differenza dei bellissimi corti, però, che in un generale ambiente di fantascienza sono proprio pensati come possibili suggestioni di serie che da quell’episodio possono nascere, questo racconto che sfiora la distopia non riesce ad avere forza evocativa sufficiente, perché ha semplicemente l’apparenza dello “strano per essere strano”. Il libro non ha una simile atmosfera e quindi il finale vanifica il blando messaggio che il racconto vorrebbe veicolare.
Al filone che va da “Black mirror” a “Oats studios” a “Love, death & robots” sembrano appartenere altri racconti - i meno riusciti - di Sosa Villada (“La casa della compassione”, “Sei tette”), racconti oscuri, vagamente misteriosi, dove compaiono bestie mannare e creature transumane generatrici di uova o cuccioli. Non è il fantastico il problema, perché anche il racconto che dà il titolo alla raccolta, “Sono una pazza a volere te”, assolutamente tradizionale e verosimile, è ugualmente desaturato e poco incisivo.
Credo che la ragione di questa oscillazione verso il lato della letteratura mediocre, al quale non ci si vuole avvicinare, sia dovuta al venir meno, in tali racconti, della proverbiale sincerità di Sosa Villada.
Sebbene l’autrice venga descritta come poliedrica maestra di stili diversi, io credo piuttosto il contrario. Credo che essa sia ancorata a un mondo che la rende efficace solo quando completamente onesta. Cosa intendo per “onesta” provo a dirlo: la voce fortissima di Sosa Villada è incredibilmente chiara, intelligibile, e mostra il suo valore quando racconta ciò che conosce, ciò che probabilmente ha vissuto sulla propria pelle trans, ciò che i suoi occhi trans hanno visto, ciò che le sue mani trans hanno toccato. Non voglio incasellare la scrittrice dentro a uno stereotipo privo di inventiva, assolutamente no, non si può essere bravi scrittori essendo semplicemente dei cronisti, e Sosa Villada è una brava scrittrice! Ma le virtù assolutamente palesi della sua scrittura hanno bisogno di una solida base che Sosa Villada deve prendere dal proprio corpo, archivio autentico di voci, sensazioni ed emozioni. «La scrittura di Sosa Villada […] parte sempre dal corpo», è assolutamente vero. Ma mentre La Nación elogia la sua versatilità, per me al corpo Sosa Villada deve essere fedele, al suo corpo, ai corpi che ha toccato, non ad altri.
Ecco perché la sua Billie Holiday è piacevole, ma poco importante, ecco perché le sue chimere sono buone per qualche suggestione, ma non hanno lo stesso inquietante potere dei mostri che altrove ha saputo evocare. La chimera non deve essere il suo scopo, in “Sei tette” il gioco simbolico le è sfuggito di mano, la chimera deve essere uno dei mezzi con cui Sosa Villada raggiunge l’intensità feroce del suo raccontare.
Quando è circoscritta, quando l’autrice gravita attorno al mondo trans, al mondo della prostituzione, al mondo della sofferenza e della malvagità degli uomini, persino geograficamente quando gravita attorno a Cordoba, allora lì davvero è onesta, lì è efficace, lì è potente.
Riprova ne è proprio il già citato “La casa della compassione”, che per metà, fino a quando non cede all’esagerazione visionaria, è un affresco autentico e feroce della vita di una prostituta.
Ma per parlar del bene che ho trovato, adesso voglio riferirmi a “Grazie, Difunta Correa”, primo racconto della raccolta, un piccolo autentico capolavoro che la nobilita tutta da cima a fondo.
Non è un racconto privo di magia, anzi, da subito il vento sussurra ad un altro vento le vicende di una fantomatica santa, e beffardamente, inoltre, la magia lo lega a “Le cattive”, a lo Splendore degli Occhi del primo libro dell’autrice.
Sebbene qui e là compaia una rozza seconda persona singolare, è un racconto di grande bellezza. Sosa Villada può avere, e non è detto, un involucro coriaceo, ma ha certamente «un’anima tenue», che risplende di luce propria nell’elegante onestà di essere scrittrice e di rivelarsi ai suoi lettori.
“Grazie, Difunta Correa” è effettivamente il mirabolante racconto di una rivelazione, di una presentazione. La protagonista, donna transgender prostituta di mestiere, scrive uno spettacolo per il teatro, uno spettacolo partorito dalle proprie viscere come un figlio, sangue del proprio sangue, in cui racconta con le parole e col corpo - che verrà mostrato nudo - la sua verità trans al pubblico, fra cui sono seduti i suoi genitori. Nello stesso momento Sosa Villada, mescolando la finzione con l’autobiografia, mostra se stessa a noi lettori, con quelle stesse parole e quello stesso corpo nudo imbandito sul palcoscenico delle parole. Noi lettori diventiamo gli spettatori di quel commovente spettacolo che scioglie il pianto del padre e che col suo successo toglierà la protagonista - che è senza nome, ma che si può chiamare Camila - dalla strada.
Lo sfondo di questo racconto è un pellegrinaggio al santuario della Difunta Correa, santa spontanea non ufficiale germogliata da quel sentimento religioso, un po’ cattolico, un po’ pagano, frequente in Sudamerica. La religiosità qui raccontata è qualcosa di straordinario, che fa da contraltare alla versione bigotta e impomatata d’Occidente. Desiderio ardente di quest’ultima è essere virginale e bianca e pura, e di pretendere verginità, biancore e purezza dai suoi seguaci. La richiesta è mostruosa, perché dal biancore immacolato della veste dell’officiante emerge una «manaccia pelosa».
La chiesa è fatta di uomini che in realtà sono ipocrite bestie dalle mani pelose, che scansano malamente i fedeli che non ritengono degni, loro sacerdoti di un dio il quale, il teoria, ha abbracciato i meno presentabili, i meno innocenti.
È questa un’immagine di grandissima potenza, che fa precipitare gli angeli e il cielo e li radica al nero orrendo di quei peli.
«Puoi essere mistico e santo quanto vuoi, ma alla fine passa sempre tutto dalla carne», scrive Sosa Villada, che di quella manaccia ha fatto un simbolo formidabile, un nuovo emblema che abbraccia il corpo più di quanto non faccia chi crede alla corpo di Cristo. Una nuova innocenza, lontana dagli algidi e candidi santi occidentali, accoglie chi dalla benedicente manaccia pelosa è stato scansato: «era come se il nostro peccato non ci dispensasse dall’innocenza».
Potente Camila Sosa Villada, liberaci dal male!
È, infine, con un’altra mano che vorrei concludere questi pensieri, ma prima un avvertimento: sto per parlare di un racconto la cui potenza si condensa in un unico momento finale. Potrei rovinarne il gusto quindi, se volete, se pensate di leggere questo bel libro, vi consiglio di saltare il paragrafo e di terminare qui la lettura.
Dicevo, vorrei concludere con un’altra mano: con la mano di Irupé che afferra la lampada pronta a spaccare la testa del padre nel secondo racconto, “Non restare troppo a lungo nella polvere”. Si tratta di un racconto piacevole, emotivamente simbolico e quasi antifona alla bellezza di un romanzo che da quel racconto potrebbe germogliare, ma che invece si concentra tutto nell’eloquenza di quel gesto di rabbia generosa che Sosa Villada deve conoscere, e che riverbera la feroce ragione dei “Ragazzi di vita” di Pasolini che solo nell’idea di uccidere il padre trovano una speranza.