L'Amletico

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Camila Sosa Villada, “Le cattive”

Questo è uno di quei libri che mi fa domandare quale sia il significato della frase “mi è piaciuto”. Cosa si intende, in realtà, con questo “piacere”? Quando un libro “piace” cos’è che piace? Significa che la storia piace? Significa quindi che ciò di cui parla provoca piacere? Significa che il modo in cui è scritto, la forma, soddisfa l’esigenza di poesia - o di musica, o di ritmo, che dir si voglia - del lettore? Ovviamente sì, ma che dire quando piacciono libri dalle storie tragiche, ad esempio?

I libri “tragici” sono i miei preferiti, se mi si perdona questa frase un po’ sciocca, ma ci siamo capiti. D’altra parte sento di poter dire con una certa sicurezza che mi piacciono, sì, mi piacciono davvero! Mi piace commuovermi, leggere le parole come traghettatrici all’interno di sé.

Ma chissà, chissà, forse trovo un piacere catartico nel leggere di tragedie. O forse, ecco che un pensiero lucido si affaccia alla mia testa, forse il mondo è un luogo tragico e, leggendo di tragedie, lo riconosco! Più volte, pensando ai miei libri preferiti, li ho associati alla voce illuminante del proprio autore, profeta della verità mostrata per quella che è. Devo dire che spesso la forma di questi libri, la lingua, gioca un ruolo importante in questo piacere che quasi si sovrappone a quello nei confronti del contenuto, talvolta combaciando così esattamente da rendere impossibile distinguere dove inizi l’uno e dove termini l’altro. Un fraseggio elegante, immagini poetiche, tutte le grazie di una buona scrittura sono da me caldamente apprezzate.

Ci sono poi quei libri in cui il tema trattato, la “storia” è talmente tragica da non poter certo dire che possa piacere, sarebbe puro sadismo - che comunque gioca un suo ruolo, scommetto, in questo gioco -, ma scritti così bene, così tanto bene da non creare imbarazzi nel dire che il libro sia “bello”, parola ombrello generica che risolve molte difficoltà comunicative.

Come riferirsi, però, a questo “Le cattive”? Mi trovo in difficoltà perché il tema trattato non può certo piacere: la vita straziante delle trans di Córdoba, in Argentina, trapuntata di angosce, di rabbia, di stenti, di fallimenti, di morte, di violenza, ancora di rabbia, tantissima rabbia, di delusioni, di pugni, di droghe e di merda e ancora di rabbia. Può piacere? Anzi, riformulo la domanda: può non creare imbarazzo il fatto che si usi l’espressione “mi piace” nei confronti di questo libro?

Che dire, poi, del linguaggio usato? Le forme sono sgraziate, quasi sgrammaticate, con frasi senza verbo, con frasi corte, spezzate, con un periodare incerto e la presentazione disordinata degli eventi, senza ordine cronologico, tutte caratteristiche da me, in teoria, disprezzate. “Le cattive”, però, è bello. Anzi, è bellissimo. Credo si possa capire il mio imbarazzo non nel fatto di provare questo sentimento di piacere nella lettura, quanto di utilizzare proprio questa espressione.

Dovrei forse dire “mi ha colpito”, ma è una frase che detesto, non sono un bersaglio né i libri sono pugni. “Mi ha affascinato” cederebbe troppo ad una dimensione poetica che il libro non ha. Non so cosa dire. Forse potrei dire, ricollegandomi a quanto detto prima: “Mi ha fatto guardare dentro me stesso”. Questa potrebbe andare. “Le cattive” è brutale, le sue frasi sono spezzate come le esistenze delle donne di cui racconta. Il libro non è un pugno ma mostra pugni e violenza ad ogni pagina, è grottesco, ciondola come uno storpio e geme per quella perversa corrispondenza tra le espressioni di dolore e di piacere.

C’è un po’ di magia come c’è in molti scrittori latinoamericani che ho letto, ma è una magia sterile e squallida, non ha il potere di addolcire l’amarezza di queste vite. Quando sembra che un barlume di gioia brilli in questo oceano di strazi, ecco che la ghigliottina della disillusione decapita rapidissima la testa della speranza. “Le cattive” è un libro feroce, il più rabbioso che abbia mai letto, è come avere davanti un animale esotico nei confronti del quale si provano un profondo fascino ed una profonda inquietudine. L’animale è ferito, moribondo direi, ed è in un angolo.

Rizza il pelo, le squame, gli aculei, soffia come un gatto, ringhia come un cane, ha gli occhi spalancati, gli artigli frementi, i denti scoperti coperti di bava e ci fissa con terrore, ma ne siamo attratti come sempre da ciò che è misterioso. La bestia apre le pagine e ci grida in faccia la sua voglia di distruggere il nostro mondo, nostro e non suo, di noi che stiamo dall’altra parte, un mondo nel quale non abbiamo pensato ad uno spazio per lei, la belva furiosa nell’angolo. Urla la violenza del suo odio e noi ne siamo agghiacciati, ma si intravede fra le pagine affilate grondanti bava una necessità atavica di amore. L’amore che non si riceve lo si esercita, come fosse un’arma, contro la creatura più indifesa di tutte, lo si rivolge disperatamente contro chi non se ne può difendere, verso lo Splendore degli Occhi.

Leggendo “Le cattive” ho pensato al “Voyage” di Céline - forse complice la fortuita occasione di ascoltarne in questi giorni frasi lette in francese (che belle le cene fra amici stranieri) - nel linguaggio, nel contenuto altrettanto crudo. Non credo che Céline, però, uguagli in ferocia Sosa Villada. In ogni caso, mi piace che i libri si chiamino l’un l’altro.

Non credo alla magia ma mi piace pensare che possano esserci queste risonanze, cartacee e non solo. Per esempio, il giorno prima di cominciare questo libro - giorno che ha coinciso con quello del Transgender day of Remembrance, altra risonanza - ero a Torino a vedere la mostra su Lisetta Carmi. C’era, ovviamente, una parte sul suo lavoro “I Travestiti”, che avevo già visto e ammirato a Roma.

Un ritratto della Morena compare, però, anche nella sezione dedicata alle donne. La didascalia, che scioccamente non ho salvato, diceva qualcosa a proposito del petto prodigiosamente femminile e materno della Morena. Ho potuto solo ritrovare su internet questa frase della stessa Lisetta: “La Morena è quella che ha ispirato “Via del Campo” a De Andrè. Era una madre.” Sembra la descrizione di Zia Encarna, col suo seno di silicone ed olio per motori che porge allo Splendore degli Occhi. Poi, nel libro, ho trovato proprio Zia Encarna che dice, a pagina 191: “…voglio che sappia che dalla merda nascono i fiori.”

Qualcosa risuona potentemente. Camila Sosa Villada conosce Pasolini, vuoi che non conosca De André? Zia Encarna è La Morena, ne sono praticamente certo. Hanno lo stesso prodigioso seno di madre. Non credo di poter spiegare meglio perché il libro mi sia tanto piaciuto. Leggetelo.

Andate a vedere le fotografie di Lisetta Carmi.

Ricordatevi della Morena e di Zia Encarna, di tutti i Travestiti e di tutte le Trans