L'Amletico

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Robert Louis Stevenson - "Il trafugatore di salme"

Titolo originale: The body snatcher

Traduzione a cura di: Livio Crescenzi

Casa editrice: Mattioli 1885

Edizione: 2016

Pagine: 75 (comprese Introduzione e Favole)

Può un romanzo di trentacinque pagine giustificare il tempo e le energie per scriverne una recensione? In generale, la risposta parrebbe scontata: ma se l'autore risponde al nome di Robert Louis Stevenson, il piano della consuetudine è presto ribaltato. Non a caso siamo in presenza di un piccolo diamante della letteratura, tanto per il suo intrinseco valore narrativo quanto per il suo impatto storico: pubblicato nel 1881, quattro anni prima de Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde, ne costituisce una sorta di prototipo, una stesura sperimentale. 
Una sera d'inverno come tante, al George, una locanda di Debenham, a Nord-est di Londra, un gruppo di amici si riunisce come di consueto per bere in compagnia. Tra questi c'è un certo Fettes, un ubriacone con un passato incerto che puntualmente e metodicamente ingurgita cinque bicchieri di rum. Non quella sera. Si ferma poco prima di finire il terzo, nel momento esatto in cui risuona un nome che non si sarebbe mai aspettato di sentir pronunciare in quella cittadina sperduta del Suffolk che credeva essere un rifugio in cui i suoi demoni non l'avrebbero mai raggiunto: "Dottor Macfarlane". Costui, si apprende, era in arrivo proprio al George direttamente da Londra per visitare un facoltoso paziente del posto colto da malore. Improvvisamente tornato lucido, Fettes chiede che gli venga ripetuto il nome, e rimane ancor più perplesso nel sentirsi rispondere "... dottor Wolfe Macfarlane". Quando il misterioso avventore finalmente compare, in tutta la sua ostentata eleganza, Fettes non ha più dubbi: è lui! Lo affronta, ricacciando nella bocca dell'altro le parole amichevoli e gli inviti a rinnovare i contatti, lo aggredisce ed infine gli sussurra delle parole che causano nel Medico una reazione di terrore tale da farlo scappare dalla città. Tutti al George assistono alla scena, ed una volta tornata la calma si chiedono cosa si celi nel rapporto tra quei due, quale strana storia li abbia consegnati a destini tanto diversi. Uno dei componenti del gruppo di Fettes, quando ormai la compagnia si è sciolta, si erge a narratore di ciò che accadde. Quel che racconterà sarà una terrificante storia i cui ingredienti saranno uomini senza scrupoli, un misterioso Dottore, contrabbando di cadaveri e omicidi in un'Edimburgo spettrale, che vedrà protagonisti i giovani Fettes e Macfarlane alle prese con le loro ambizioni personali e la loro umanità e che saranno loro malgrado protagonisti di un colpo di scena finale che li cambierà per sempre.

Nel romanzo sono inseriti due enigmi principali, sapientemente posti dall'autore all'inizio ed alla fine del racconto: il primo e più evidente è ciò che accade nel finale, quello strano e misterioso evento che segnerà le vite e le vicende dei due protagonisti; il secondo, più celato ma con ogni probabilità assai più importante del primo, riguarda la veridicità della vicenda stessa, ovvero se ciò che il narratore ci racconta sia realmente quanto avvenuto. Egli ci dice, dopo aver assistito all'aggressione di Fettes a Macfarlane, che "[...] (Fettes) senza nemmeno finire il terzo bicchiere e tanto meno senza attendere gli altri due, ci salutò e uscì dal bar, e [...] scomparve nella notte buia", aggiungendo che il loro gruppo, dopo essersi rimesso al tavolo rimase "a chiacchierare per ore e ore [...]. Prima di salutarci, ognuno di noi aveva tirato fuori qualche sua spiegazione [...]; e nessuno di noi aveva nulla [...] di più urgente e necessario da sbrigare che frugare nel passato del nostro compagno di bevute per riuscire a svelare il segreto che [...] condivideva con il grande medico di Londra", per poi concludere affermando "Non è che sia poi un gran vanto, ma sono convinto che, rispetto agli altri miei amici del George, fossi proprio io la persona più adatta a ricostruire una storia [...]". Escludendo un salto temporale che non sembra avere fondamento, il narratore e Fettes non hanno ulteriori contatti quella sera né tanto meno pare plausibile che si tratti di una persona testimone dei fatti; ciò lascia intendere che il suo racconto avvenga quella sera stessa, e che la storia che sta per narrarci sia, più che una realtà di cui è a conoscenza, una sua personale interpretazione di ciò che potrebbe essere accaduto tra i due ex amici e colleghi o, ancora, una storia di paura da raccontare ai compagni la sera successiva con l'intento di spaventarli. 

Come ci istruisce Livio Crescenzi nella sua Introduzione, tappa fondamentale per poter apprezzare appieno il romanzo, "Il trafugatore di salme" e "Dr. Jekyll e Mr. Hyde" presentano diversi temi e caratteristiche condivise: oltre a quelle citate dal Curatore, si potrebbero aggiungere l'orrore della morte, l'inquietudine umana, l'immoralità di una società di "leoni e agnelli" (come pomposamente ribadito da Macfarlane) e, ancor più importante, il Soprannaturale come limite dell'intelletto e della conoscenza umana. Nel "Trafugatore" questo aspetto non è predominante come in "Jekyll e Hyde", ma è tangibile, lo si percepisce come un pulviscolo disperso nell'aria che avvolge i personaggi, pronto a manovrarne il destino e assumendo forma concreta solo nel finale. Questa differenza nasce probabilmente da una specifica necessità dell'autore, che qui ha voluto sperimentare la mescolanza di elementi quali la medicina, l'inconoscibile e la mostruosità delle azioni che può arrivare a compiere l'uomo accecato dalla fama e dalla sete di conoscenza universale o, più semplicemente, dalla sua debolezza.

Quest'ultimo punto di vista è palesato con grande forza da Stevenson in quello che è forse uno dei passaggi più importanti e intensi del libro, ovvero il momento in cui Macfarlane convince Fettes a non denunciare l'omicidio della giovane Jane Galbraith. Il perentorio discorso che inscena mette in luce una verità assoluta: il senso di inadeguatezza di molti alimenta l'autoritarismo di pochi. Macfarlane ci viene descritto come un "uomo di mondo" che, a discapito della giovane età, ha maturato discrete esperienze di vita soprattutto grazie ai suoi viaggi e, consapevole della sua fama, sa di poter esercitare una forte influenza su gran parte dei suoi colleghi. Fettes, non a caso, subisce l'immagine e la sicurezza nei propri mezzi di Macfarlane ed è immediatamente persuaso a mettere da parte la sua "prudenza, chiamata impropriamente moralità", sia per compiacere i suoi superiori, sia per non mettere in pericolo se stesso (dando così un senso alla sua "prudenza", chiamata propriamente "codardia"). L'uomo, si sa, cede facilmente alle lusinghe e al fascino di coloro che non sembrano avere un singolo cedimento, sempre decisi sul da farsi, ed è pronto a seguirli anche in territori sconosciuti alla propria anima e per questo, il più delle volte, pericolosi e senza ritorno.

Non si finisce mai di rimanere stupiti dall'incredibile talento del grande scrittore che Stevenson è stato. Anche in queste poche pagine ci delizia con una scrittura di altissimo livello, in cui ogni parola è perfettamente calibrata con la precedente e la successiva, a creare un'armonia quasi musicale ed una purezza stilistica con pochi eguali. L'intreccio è cucito come un sarto non avrebbe saputo far meglio, il lettore vi rimane prigioniero senza mai sentirsi soffocato, anzi si inoltra con curiosità tra le strette maglie in cerca della verità o semplicemente per arrivare all'uscita e sapere cosa si nasconde alla fine del labirinto. 
Di tutte le qualità di cui la scrittura di Stevenson può fregiarsi, la migliore è senza dubbio la minuziosità della descrizione degli ambienti e dei luoghi che circondano i personaggi e in cui essi si muovono; grazie ad essa le parole si tramutano in immagini nitide e vive, la lettura in visione, le emozioni della fantasia si fanno tangibili sul corpo. I muscoli si tendono, la mascella si serra, sotto la pelle scorrono brividi nel momento in cui Fettes e Macfarlane si incamminano verso il cimitero dove dovranno trafugare la salma richiesta dal Dottor K. in persona: i due sono circondati da un "silenzio totale" e si muovono in un "buio pesto" fin quando raggiungono una fitta boscaglia, dove "il buio si fece ancora più intenso" e si ritrovano "attorniati da ombre enormi che si muovevano al vento". La Paura è l'obiettivo di questo sapiente crescendo di tono che, inconsciamente, farà aumentare il ritmo della lettura insieme a quello dei battiti del cuore.

Concludo, concedetemelo, con una riflessione personale che trae linfa proprio da quest'ultimo aspetto. La scelta di Stevenson di ambientare le vicende di questo e del suo romanzo più famoso in luoghi spesso cupi e spettrali non è dettata da una pura necessità scenografica, ma nasce con il preciso intento di lanciare un chiaro messaggio: l'oscurità di ciò che ci circonda altro non è che il riflesso dell'oscurità insita negli uomini, che troppo spesso vivono le loro vite all'ombra delle loro paure.

Note: Nel volume di Mattioli 1885 sul quale si basa questa recensione troverete anche delle divertenti Favole di R. L. Stevenson a sfondo filosofico, mentre nell'edizione Leoni Editore è presente il testo originale a fronte. 

Gradimento: 9/10

Media Critica e Pubblico*: 7/10

*v. fonti in calce

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